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L'ALIENAZIONE

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PRMESSA A L'ALIENAZIONE

STRUTTURA DEL MARXISMO I
STRUTTURA DEL MARXISMO II

ALIENAZIONE I
ALIENAZIONE II
ALIENAZIONE III



PREMESSA A “L’ALIENAZIONE”

Tratto distintivo della logica dialettica è che gli enunciati - in essa sono denominate concetti - ammettono come vera anche la negazione di un concetto. Quindi il principio di non-contraddizione, uno dei fondamenti della logica formale viene escluso. Ne consegue che nella dialettica i concetti possono essere contradditori, anzi devono esserlo in quanto proprio perché sono negati dai loro opposti, sono in realtà concetti in movimento, alla ricerca di una sintesi, cioè di una formulazione che li renda veri insieme ai propri opposti.

Anche la contraddizione dunque è sempre in movimento e assume aspetti mutevoli che la porteranno alla sua risoluzione.

Così è per il concetto di alienazione. Perciò nei testi seguenti il suo carattere contradditorio appare in forme cangianti, le quali esprimono tale concetto in formulazioni in apparenza diverse ma in realtà complementari, in quanto descrivono la stessa cosa da punti di vista diversi. La definizione generale discende dall’insieme di queste descrizioni parziali, in una sintesi che le supera tutte ed insieme le conserva, in quanto nella dialettica la verità è costituita dalla totalità dei singoli e possibili aspetti che la cosa assume nel suo movimento.
In questa chiave vanno letti i testi che seguono:

STRUTTURA DEL MARXISMO I, II;

L’ALIENAZIONE I,II,III;

Sorge così il problema della compatibilità del metodo dialettico con il metodo scientifico. La questione viene affrontata nei testi di cui sopra ma l’osservazione precedente sul carattere fluido dei concetti dialettici, permette di anticipare quale sia il loro principale carattere. Ciò che li distingue è il fatto di essere concetti in movimento e tale movimento è il movimento storico. Sono concetti storici e sono tali perché sono contradditori, quindi alla ricerca della loro realizzazione. Questo aspetto indica quale è il luogo d’origine della dialettica e il suo precipuo campo di applicazione, la storia e di conseguenza tutto ciò che è in essa compreso, le cosiddette scienze dell’uomo, in primo luogo l’economia. Di qui la stretta connessione tra il concetto di alienazione, la storia sociale e l’economia, che costituiscono il contenuto del marxismo, teoria che rappresenta anche il primo tentativo di conciliare la dialettica e le scienze naturali.

D’altra parte, l’idea che un discorso contradditorio abbia un senso accettabile, anzi abbia un senso proprio in quanto contradditorio e perfino più senso di un discorso coerente, può darsi unicamente nel campo della prassi umana. Infatti l’idea che un processo possa generare un risultato che si oppone a ciò che ha originato il processo stesso, può realizzarsi solo nell’ambito dell’agire umano, che è sempre un’azione intenzionale, cioè tesa alla realizzazione di un fine, quindi dà sempre luogo ad un processo finalistico. La dialettica considera tali processi proprio in quanto possono sfociare in risultati che sono l’esatto opposto di quelli che il soggetto intendeva realizzare. La dialettica permette di prendere in considerazione i processi finalistici, fornendo innanzitutto un linguaggio che permette di concettualizzarli, almeno qualitativamente.
Se l’azione umana è il terreno su cui si muove un processo dialettico, il campo della scienza logico-deduttiva sarà quello dei fenomeni naturali, non finalisti ma deterministi nel senso che sono determinati dalle condizioni iniziali. Perciò si svolgono sempre allo stesso modo, secondo leggi immutabili, cioè sono ripetibili, quindi permettono di formulare previsioni con un buon margine di certezza. Sorge il problema della compatibilità delle due logiche. Sul piano pratico sono perfettamente compatibili. Infatti anche Hegel deve ammettere che nihil est in intellectu quod non prius fuerit in in sensu e che nella comprensione di un fenomeno è necessario seguire il percorso che dal concreto conduce all’astratto per poi tornare al concreto.

L’incompatibilità tra i due metodi sta proprio nell’uso di due logiche opposte. Si tratta di un tipico problema dialettico. Vi sono scienze, come la stessa economia, che partecipano sia della storia che della natura e per le quali non si sa quale metodo di indagine usare. Ma in realtà il problema si pone per ogni discorso esplicativo di un contenuto qualsivoglia. Questo perché nessuna azione umana si svolge fuori della natura, così come ogni fenomeno naturale esiste per gli individui solo se è inserito nella sua prassi esistenziale. Anche qui è dunque necessario operare una sintesi. Cioè elaborare un metodo di indagine che superi e includa l’opposizione fra dialettica e logica formale, impresa finora mai tentata con successo, ma che è quanto mai urgente portare a compimento, dato che significa superare la dicotomia esistente fra pensiero scientifico e scienze sociali.

Va da sé che in una società alienata, anche se tenta di uscire da questa condizione, ogni tentativo di definire l’alienazione, e a maggior ragione la dialettica e il suo superamento non può che essere a sua volta alienato. Solo il superamento pratico e completo dell’alienazione può permettere di comprenderla. Ma naturalmente senza una reale comprensione non può esservi superamento definitivo. E questa è un’altra contraddizione che si aggiunge alle precedenti, ma è anche l’ultima, quella che le comprende tutte, quindi il vero scoglio da superare.
Vi possono essere solo due soluzioni: il superamento come somma di superamenti parziali, che corrisponde ad una presa di coscienza graduale. Oppure un superamento radicale cui corrisponde un salto qualitativo della coscienza. Quale sia la via che conduce al superamento reale sarà la storia a deciderlo, cioè le vicissitudini che incontra l’impresa della costruzione dell’uomo ad opera di se stesso. Ma dato il carattere dialettico dell’alienazione si può ipotizzare che anche il superamento condividerà tale carattere per cui il processo avrà la forma di una sintesi tra le due modalità. Cioè il processo storico sarà costituito da fasi di decondizionamento graduale intercalati da momenti di frattura profonda e istantanea della condizione alienata, successione che termina con una frantumazione definitiva degli ultimi residui di alienazione.

Torino, nov, 15. 2015
Valerio Bertello


fine introduzione


1, STRUTTURA DEL MARXISMO I, (2.0)

I TRE PRINCIPI DEL MARXISMO

Il metodo

E’ facile nello svolgimento di un discorso scambiare causa ed effetto. Ciò avviene quando la sequenza temporale dei fatti non è chiara. Allora può accadere di porre come assioma quello che invece occorre dimostrare, cadendo inavvertitamente nella petitio principii. E’ ciò che capita sovente nel marxismo, in quanto non vi è accordo su quelli che sono i suoi compiti. Se lo si considera come una teoria della storia, allora il suo scopo non può essere che quello di porre alcuni principi e sulla base di questi dedurre l’esistenza di processi storici nei quali le formazioni sociali sorgono, deperiscono e sono sostituite da altre, cioè sono investite da processi rivoluzionari. In particolare, trattando della società capitalista, il marxismo deve dedurre la sua transitorietà ad opera di un soggetto rivoluzionario individuato nel proletariato. .
Questo discorso dimostrativo è fondato sulla verità delle premesse, che sono le ipotesi, stabilita la quale, esse costituiscono una teoria applicabile a tutto il campo nel quale le premesse hanno senso. Il criterio di verità stabilisce che le ipotesi sono necessariamente indimostrate ma verificate almeno in alcune circostanze, cioè confrontandole con certi dati di fatto. La verifica delle premesse viene in generale effettuata a posteriori, cioè sulle loro conseguenze, quindi indirettamente, operazione logica che però non costituisce una prova, ma una semplice conferma della teoria. Ciò a differenza della verifica a priori, che si compie direttamente sulle premesse, verifica sempre conclusiva ma raramente possibile data l’astrattezza e generalità dei principi. Il diverso valore dei due tipi di verifica sta nel fatto che, secondo la logica formale, se le premesse sono vere lo sono anche le conseguenze, non è vero il contrario: la verità delle conseguenze non implica quella delle premesse. Ma non è qui il luogo dove si possa svolgere un discorso sul metodo ipotetico-deduttivo. Basta dire che, come ogni metodo, viene giudicato dai risultati, cioè dalla sua capacità esplicativa e comunque può essere accettato o meno, ma se viene accettato occorre accettare le conclusioni cui si perviene poiché in tal modo si conferisce loro lo stesso grado di certezza attribuito alle premesse. Quindi secondo questa concezione il marxismo è la dimostrazione del carattere rivoluzionario del proletariato.
A questa idea di marxismo si oppone quella che pure viene spesso considerato alternativamente il suo contenuto, posizione che equivale non solo ad una petitio principii, ma anche al passaggio ad un altro tipo di logica, quella teleologica. Questo è ciò che accade quando, come accade frequentemente, si antepone l’effetto alla causa, cioè si pone a priori il proletariato come classe rivoluzionaria.. Ciò si verifica il più delle volte perché sotto la pressione degli eventi è necessario lasciare la teoria per la prassi rivoluzionaria, e quindi occorre abbandonare ogni dubbio e l’analisi astratta, sempre opinabile, che caratterizza il discorso teorico. Ma porre quel che si deve dimostrare come postulato significa ammettere la possibilità di dedurre immediatamente sulla base di questo unico principio, quello del carattere rivoluzionario del proletariato, tutta la serie di fatti che in realtà, dal punto di vista del metodo ipotetico-deduttivo, dovrebbero costituire il fondamento empirico su cui poggia l’ipotesi. In tal modo quello che nel metodo ipotetico-deduttivo è l’effetto viene posto come causa, la causa come effetto. Ma in questo modo il discorso dimostrativo viene trasformato in discorso teleologico, cioè l’effetto, cioè la conseguenza delle premesse, diviene causa finale e determina come effetti quelle che, secondo l’altro punto di vista, sono cause. In termini logici ciò si traduce nel dimostrare astrattamente la realtà di fatti la cui realtà deve essere fondata mediante osservazioni o procedimenti empirici. Ciò significa postulare che la storia ha come fine la rivoluzione proletaria e quindi la formazione di un proletariato rivoluzionario.

Stabiliti quali sono i compiti della teoria, possiamo chiederci quale è la strada percorsa da Marx. Difficile individuarla, dato il carattere scarsamente metodologico delle sue ricerche e dei suoi scritti. Probabilmente entrambe le strade. Certamente, dato l’impianto hegeliano e dialettico della sua logica, si può dire che a grandi linee segue la prima. Ma anche la seconda non è da escludere dato il carattere scientifico che voleva imprimere alla sua teoria. Qui non è possibile affrontare tale spinoso problema, che lasciamo volentieri alla esegesi marxista. Del resto è più importante individuare i principi su cui è fondato discorso marxiano e verificare se sono sufficienti a fondare il marxismo come discorso ipotetico-deduttivo. Questo è un compito titanico, del resto, a nostra conoscenza, mai affrontato. Quindi ci riferiremo al lavoro effettuato da Marx nello svolgimento della sua teoria. Infatti il discorso complessivo di Marx sembra più improntato da questa linea di pensiero. Cioè Marx vuole dimostrare l’inevitabilità della fine del capitalismo ad opera del proletariato, il che equivale alla dimostrazione del carattere rivoluzionario del proletariato, che viene dedotto da tre principi: la concezione materialistica della storia, la definizione di valore e il concetto di alienazione. Questi tre principi sono a loro volta fondati su dati empirici, dai quali derivano per induzione sia a priori che a posteriori. Cioè sia i postulati che le conclusioni sono verificati da osservazioni. Naturalmente il discorso marxiano non procede con il rigore della logica formale, in quanto per questo sarebbe necessario tradurre il tutto in un discorso formalizzato trasformazione probabilmente impossibile in tale contesto e nemmeno necessaria dati gli scopi cui esso tende, la mobilitazione delle coscienze. Quindi si tratta di un discorso persuasivo più che dimostrativo, più attinente alla retorica che alla logica. Del resto qui la logica formale sarebbe difficilmente applicabile dato che nel discorso marxiano persistono tracce di logica dialettica, incompatibile con quella formale. Tuttavia l’impresa non è impossibile, almeno operando sulle linee essenziali del discorso marxiano.

Per quanto riguarda il materialismo storico il discorso marxiano più sviluppato disponibile, per quanto incompleto, è quello svolto nell’Ideologia Tedesca. Qui, come in altri luoghi, vengono tratteggiate le classi, l’idea di forze produttive e di rapporti di produzione, i concetti di infrastruttura e sovrastruttura. Per quanto concerne il secondo principio, naturalmente il lavoro migliore in assoluto di Marx è quello esposto nel Capitale. Qui dalla definizione di valore si deducono lo scambio, la merce, il denaro, la divisione del lavoro, la concorrenza, il capitale, il lavoro salariato, infine il plusvalore. Cioè la teoria del valore è posta come dimostrazione dell’esistenza del plusvalore. Riguardo l’alienazione, si ha la digressione sul feticismo della merce, che compare nel Capitale. Naturalmente numerosi riferimenti a questi principi e concetti da loro derivati si possono rinvenire ovunque nell’opera marxiana, soprattutto, per il materialismo, nel Manifesto, nel capitolo sui modi di produzione precapitalistici dei Grundrisse, nella Prefazione al libro primo del Capitale, mentre per l’alienazione sono indispensabili i Manoscritti del 44 e il capitolo VI inedito del Capitale. Ma complessivamente si tratta solo di frammenti di un’opera non solo incompiuta ma appena abbozzata. Infatti Marx più che svolgere una teoria completa in un testo dedicato espressamente alle questioni di metodo, si è preoccupato quasi esclusivamente di applicarla alla realtà storica. Cioè Marx è restio a porre al centro del discorso i principi teorici, cioè a porre i principi in forma astratta. Per cui troviamo la sua teoria espressa o in aforismi folgoranti ma dispersi o in prolisse narrazioni storiche dove i principi teorici appaiono diluiti e servono perlopiù come categorie ordinatrici dei fatti, non come principi generali da dimostrare sulla scorta dei fatti. Infatti la raccolta di materiale empirico costituisce solo una metà del discorso dimostrativo, quella della fondazione, quella in cui si deducono i principi dai fatti. Successivamente i principi vanno messi al lavoro, deducendo da essi le loro conseguenze in campi empirici diversi da quello nel cui ambito sono stati elaborati e verificando i risultati sui dati disponibili. E’ questa verifica quella decisiva per la teoria, che se ha successo, è conclusiva se si tratta di una verifica delle premesse, mentre non costituisce mai la prova definitiva della sua verità ma solo la corrobora. Marx si dimostra troppo empirico e rifiuta questa seconda parte del metodo, giudicando questa, che costituisce la generalizzazione dei fatti conosciuti, una operazione che si pone nel campo della filosofia della storia, “…la cui virtù suprema è d’essere sovrastorica”, come egli dichiara polemicamente. Ma questo in realtà è proprio il suo maggior pregio, quello di superare la molteplicità caotica dei singoli fatti empirici, di per sé frammentari, quindi essenzialmente muti, cioè di far parlare i fatti collegandoli in un discorso unificante, che anche quando non può esprimere la realtà sottostante in forma inconfutabile, può tuttavia rappresentare una verità probabile, qualora trovi riscontro nei dati disponibili, ciò che costituisce una conferma di quanto è stato dedotto teoricamente.
Considerando in particolare la teoria del materialismo storico, poiché essa è stata fondata da Marx sullo studio della storia dell’Europa occidentale, questa operazione equivale alla fondazione dei principi del materialismo deducendoli in un campo limitato ma ben conosciuto. Ovviamente ogni applicazione in tale campo dei principi da esso dedotti ha un valore semplicemente tautologico, poiché non si può ricavare da essi che quello da cui si è partiti. Per ottenere i frutti che la teoria può produrre, è necessario applicarla in un campo più esteso di quello originario. E’ quello che fece Marx applicando il materialismo all’Europa orientale e all’Asia. Questo è un campo storico che ha avuto una evoluzione parzialmente diversa rispetto a quella dell’Europa occidentale per cui il materialismo ivi applicato può fornire previsioni che non si accordano con i fatti, quindi deve essere parzialmente modificato per accordarsi con i dati storici o rigettato, scelta per la quale non esistono regole generali. Ma in altri casi verrà confermato fornendo così una verifica della sua validità come legge universale. Quindi, come per ogni teoria la sua validità è solo questione di circostanze, questione che può essere risolta solo mediante l’analisi dei singoli casi. E’ anche ciò che sostiene Marx, il quale tuttavia è troppo drastico nel limitare la validità del materialismo storico all’Europa occidentale. Può essere che le cose stiano proprio così, ma non necessariamente. L’ampliamento del campo d’applicazione è per una teoria sia il banco di prova per la verifica della sua validità, come anche ciò che porta al suo naufragio. Nel primo caso essa viene confermata e quando le verifiche crescono di numero cresce la sua affidabilità, cioè la certezza che sia una descrizione esatta e generale della realtà. In questo senso preciso si può parlare di determinismo. Quindi non è la realtà che ha carattere deterministico, ma il fatto che la realtà può determinare la teoria fino a renderla una immagine esatta della realtà stessa. Quindi la realtà è determinata in quanto la teoria aderisce sempre più strettamente alla realtà. Anche nel caso in cui la teoria entra in crisi, non basta una singola smentita per affossare una teoria, occorrono fallimenti ripetuti. ma anche allora prima di dichiarare una teoria inadeguata si può tentare il suo salvataggio modificandola parzialmente in modo di accordarla con i fatti, ciò che si può sempre fare. Ma ciò significa allargare il campo in cui la teoria è tautologica, quindi indebolirla. Oppure si può giudicarla irrecuperabile, ciò che però avviene solo quando una nuova e diversa teoria sorge all’orizzonte.
Conseguenza del metodo ipotetico-deduttivo è che il ben noto aforisma di Marx “Anche quando una società è riuscita a intravedere la legge di natura del proprio movimento, non può saltare né eliminare per decreto le fasi naturali dello svolgimento”, diviene una ovvietà, in quanto afferma che si può generalizzare quanto è avvenuto in luoghi e tempi diversi. Di qui il carattere deterministico delle leggi ma che è piuttosto un carattere del metodo. Si può generalizzare solo ciò che è deterministico.
Pertanto i problemi si semplificano. Infatti la vexata quaestio della comune rustica si dirime immediatamente. Secondo il materialismo storico la comune rustica è destinata a decadere e ad essere superata dal dispotismo o dalla città stato. In effetti ciò è accaduto ovunque in Europa occidentale e quindi si può tentare di generalizzare questa evoluzione all’Europa orientale e all’Asia. Ma tale generalizzazione è confermata in quanto è accaduto in queste aree, soprattutto in Asia con la nascita del dispotismo. Quindi il materialismo storico su tale questione è confermato. Non vi è altro da aggiungere se non discutendo i dati empirici oppure rigettando il metodo, ciò che è solo una scelta soggettiva in quanto mentre il metodo è la base di ogni dimostrazione nei limiti del suo ambito, proprio per questo non può essere a sua volta dimostrato. Ma solo corroborato. Cioè può essere giudicato solo confrontando i risultati della teoria con il materiale empirico. Ma in mancanza di un criterio oggettivo la valutazione dei risultati è soggettiva. Cioè il metodo è frutto di una libera scelta, sulla base di criteri indipendenti dal metodo stesso.
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Pertanto si può affermare che in linea generale Marx si è posto il compito di dedurre il carattere rivoluzionario del proletariato. Per questo è necessario dimostrare la caducità delle formazioni sociali, ma non solo, occorre trarre dai fatti storici il carattere specifico della rivoluzione proletaria. Ciò viene compiuto partendo da tre principi indimostrati ma verificati su fatti storici. Il primo principio è il materialismo storico che stabilisce che le basi materiali di una società determinano i rapporti di produzione e questi i rapporti sociali in generale e la sua sfera spirituale, cioè la sovrastruttura. Non il contrario, come afferma l’idealismo. Quindi per trasformare la società è necessario partire dalla sua struttura economica. Il secondo principio definisce questa struttura economica a partire dalla nozione di valore, da cui si deduce quella di plusvalore, la cui esistenza condanna il proletariato ad essere in perenne conflitto con la società di cui è parte. Infine il concetto di alienazione definisce il modo di operare delle forze produttive sui rapporti di potere. Consideriamo alcuni aspetti di questi principi e come portino alla rivoluzione proletaria.

Scienza e forze produttive.

Il contenuto del materialismo storico è sintetizzato dal noto aforisma “Non è la coscienza degli uomini che determina la loro essere, ma è al contrario il loro essere sociale che determina la loro coscienza”. Ciò significa che la struttura materiale di una società condiziona le sue istituzioni, che costituiscono la materializzazione della sua coscienza, cioè la sua sovrastruttura. Consideriamo un caso particolarmente importante di rapporto tra struttura e sovrastruttura, quello tra scienza applicata e visione del mondo della società. Infatti tale rapporto fornisce coerentemente una conferma storica della coerenza del materialismo storico e una spiegazione delle origini del metodo scientifico, che costituisce anche una sua giustificazione.
La scienza in quanto principale forza produttiva del capitale è ciò che determina il rapporto di produzione capitalistico e il suo carattere fondamentale di rapporto di sfruttamento. Infatti tale rapporto si concretizza con una massiccia introduzione delle macchine nei processi produttivi, macchine che determinano un maggiore controllo della forza lavoro, e quindi del dominio del capitale sul lavoro. Ma incrementando la produttività del lavoro ne aumenta l’intensità e quindi il plusvalore.
La scienza dominando il rapporto di produzione determina anche ogni altro rapporto sociale, cioè i rapporti sovrastrutturali, anche quelli connotati come attività intellettuale. Tale predominio determina non solo i contenuti del pensiero ma anche il modo di pensare, cioè la struttura stessa del pensiero, quindi il modo di elaborare i contenuti del pensiero. Il pensiero scientifico è una sintesi di razionalismo ed empirismo che costituisce il carattere essenziale del metodo scientifico, cioè sperimentalismo e matematizzazione dei dati dell’esperienza. Quindi il modo di pensare della società attuale in quanto società del capitale, è empirico e razionalistico.
Poiché la nascita del pensiero scientifico coincide con la nascita del capitale, da quel momento storico la visione del mondo è cambiata, si è liberata delle astrazioni religiose che fino ad allora ne avevano limitata la portata. La rivoluzione sociale attuata dalla borghesia è stata simultaneamente una rivoluzione scientifica. Ovviamente ciò non significa che sotto il capitale ogni individuo sia uno scienziato, cioè un indagatore delle leggi naturali, ma semplicemente che nella vita di ogni giorno tende ad impostare il proprio modo di pensare razionalmente ed empiricamente. Cioè che gli individui accettano come verità solo ciò che possono toccare con mano e che sono in grado di pianificare un’azione come sequenza di atti concatenati, processo prima concepito astrattamente, poi realizzato concretamente, volto a conseguire un fine. Questo generico atteggiamento nel confrontarsi con l’esperienza immediata è già sufficiente a mettere in crisi il modo di pensare anteriore cioè il pensiero religioso. E’ quello che è avvenuto, cambiando radicalmente la visione del mondo che dominava incontrastata fino ad allora, quella religiosa. Fatto di cui non ci rendiamo pienamente conto, perché la religione, quella reale, ha dovuto scendere a patti con la scienza. Nella sua autenticità non esiste più da un pezzo e tale modo di pensare è ormai irreversibilmente superato.
La differenza tra il pensiero antico e quello moderno sta nella opposizione tra il carattere astratto di quest’ultimo e quello concreto del primo. Infatti il primo vuole oggettivare le proprie costruzioni mentali considerandole la vera realtà, come accade nell’idealismo platonico e quello hegeliano, invece di considerarle per quello che sono, prodotti della mente umana. Mentre il secondo astrae dal concreto frammentario per arrivare nel pensiero alla sintesi che permette di comprendere la realtà concreta. Ma questo non accade solo per la scienza. Anche le espressioni più mature dell’arte moderna si caratterizzano per la loro forma astratta. Anche in questo caso l’astrattismo ha come fine quello della sintesi, cioè vuole esprimere l’essenza delle cose eliminando il superfluo, cioè giungere all’essenziale astraendo dal particolare.

Valore e lavoro

Il secondo principio fondamentale è il valore. Il valore di una cosa è il suo costo, cioè quello cui l’acquirente è disposto a rinunciare al fine di appropriarsi un determinato oggetto. Evidentemente il concetto di perdita è soggettivo. Ciò che è una passività per un individuo può essere indifferente o persino un attivo per un altro. Quindi si può acquisire un oggetto in molti modi, secondo i costi, che sono in generale soggettivi e quindi infiniti. I modi di acquisizione si dividono in due categorie, la produzione e lo scambio per le quali si definisce il valore di scambio relativo come rapporto dei costi di produzione. Le due categorie sono indipendenti, per cui volendo acquisire un oggetto si pone innanzitutto il problema: produrre o comprare ? Nel caso di un soggetto isolato la decisione dipende dal costo di produzione soggettivo degli oggetti da produrre o da scambiare. Ma se il soggetto opera in un ambiente sociale si constata che il costo di produzione e il valore di scambio tendono ad eguagliarsi, cioè il secondo viene assorbito dal primo. E il costo di produzione tende ad essere uguale per tutti gli individui. Cioè i diversi costi soggettivi possono avere un certo grado di generalità che dipende dalla diffusione della disponibilità a soddisfare a un certo livello di richieste qualitative e quantitative. Così si può constatare che esistono contropartite universali, cioè in grado di soddisfare qualunque richiesta in un certo ambiente sociale, cioè in un certo mercato. La più universale è il lavoro astratto e socialmente necessario. Questa unificazione è il risultato storico dovuto al dispiegarsi della concorrenza tra produttori indipendenti.
Il tempo di lavoro astratto è il tempo di lavoro in quanto tale, indipendentemente dal suo contenuto, quindi considerato solo quantitativamente nella sua durata temporale e astraendo dalla sua qualità. Considerare il lavoro astrattamente è necessario quando si sceglie di misurare il valore di una merce in tempo di lavoro. Questa scelta ha il vantaggio di chiarire che lo scambio di due merci è uno scambio di tempi di lavoro ma pone il problema della eterogeneità dei lavori utili. Ma così semplicemente si sposta il problema dal valore d’uso dell’oggetto al lavoro che lo ha prodotto, in quanto all’utilità della merce corrisponde una specifica utilità del lavoro che l’ha prodotta. Quindi si tratta ora di confrontare i lavori utili qualitativamente diversi che hanno prodotto le diverse merci. Ciò significa ritornare al problema da cui si era partiti, ma. ora si ha a che fare con un elemento che è causa del prodotto, l’altro essendo la natura. Il problema del confronto si risolve definendo una qualità comune a tutti i lavori utili, il lavoro astratto, cioè il lavoro in generale, quindi una unità di misura e un procedimento di misurazione.Questa qualità comune e la sua misurazione permettono di definire l’equivalenza di due merci eterogenee, cioè tra due quantità di lavori utili diversi. Per Marx questa qualità comune è il lavoro semplice, cioè privo di qualità e “un lavoro complesso vale come lavoro semplice … moltiplicato”. Questa qualità comune viene definita genericamente come “dispendio di cervello, muscoli … umani”, misurata in tempo. Ma questo significa misurare il lavoro come flusso nel tempo di una grandezza non definita quantitativamente. Quindi è necessario ritornare alle diverse qualità di lavoro e definirle direttamente come grandezze temporali. Una via percorribile è quella di non considerare il lavoro positivamente come fattore produttivo, cioè come fonte di ricchezza, il cui valore varia secondo la sua utilità, ma negativamente come perdita, ritornando alla definizione di valore proposta da A. Smith. Cioè il tempo di lavoro va considerato immediatamente come tempo il cui contenuto è il fatto che si tratta di una perdita di tempo di vita per poter soddisfare i bisogni, sia quelli necessari che quelli solo piacevoli. Si tratta quindi di una perdita assoluta, in quanto perdita di tempo di vita sacrificato alla vita considerata sia come mera sopravvivenza, cioè semplice esistenza materiale, sia per il contenuto qualitativo che si desidera conferirgli. Qui il mezzo contraddice il fine poiché il lavoro è considerato negazione della vita, cioè l’opposto della vita che è necessario alla vita. Si tratta di tempo alienato che si contrappone al tempo libero, quella che Marx definisce come sfera della libertà che si contrappone alla sfera della necessità. Il tempo libero è consumo di tempo alienato. Quindi è caratterizzato dalla durata, dal lasso di tempo in cui si è privati della libertà.
Quantitativamente il tempo di lavoro astratto che esprime un costo dipende dalla produttività del lavoro stesso in quanto se c’è la possibilità di comprare non conviene produrre se il costo in tempo di lavoro è superiore a quello reperibile sul mercato. In tale regime la molteplicità dei costi computati in lavoro astratto di una merce tende ad equipararsi al livello corrispondente alla quantità di lavoro tecnicamente minimo. Infatti chi produce a quel livello di costo è avvantaggiato rispetto agli altri produttori ed è sicuro di vendere l’intera sua produzione. Mentre gli altri produttori devono adeguarsi a quel prezzo, o lavorando in perdita, per cui prima o poi devono ritirarsi dal mercato, oppure acquisisendo tecniche più produttive. Inoltre i produttori più efficienti sono indotti ad allargare la propria produzione, quindi a specializzarsi. Pertanto la produzione genera sempre un livellamento dei costi ed un incremento costante della divisione del lavoro. Pertanto il costo tende sempre ad assestarsi al livello minimo possibile e a stabilizzarsi a quel livello per tutti i produttori, che sono anche specializzati nella produzione di una certa merce. Questo livello minimo è il lavoro astratto socialmente necessario che nasce dalla concorrenza.
Il concetto di merce è quello di oggetto che possiede un valore, cioè oggetto prodotto da una certa quantità di lavoro misurato dalla sua durata. Stabilito che gli oggetti hanno un valore è facile dedurre il concetto di plusvalore, che sorge quando è possibile acquistare tutto quello che è necessario per la produzione di un oggetto, in particolare il lavoro stesso. Allora si può scoprire che un lavoro può non solo produrre se stesso in termini di valore riproducendo il valore perduto nella produzione del prodotto e da esso assorbito, ma anche un sovrappiù, il plusvalore. Questo plusvalore finché si tratta di produttori indipendenti non pone problemi per quanto riguarda l’appropriazione. Questi sorgono quando i fattori di produzione sono di proprietà differenti. Per la distribuzione il principio è quello che il plusvalore va al proprietario dei mezzi di produzione in proporzione al valore del suo contributo. Ma accade che questo principio non è sempre valido per il proprietario del lavoro. Lo è solo se il lavoro è stato acquistato, quindi solo se si tratta di lavoro coatto, cioè di lavoro salariato. Non lo è se si tratta di lavoro libero. Ciò accade perché nel primo caso lavoratore e proprietario del lavoro sono due persone distinte e il plusvalore va interamente a quest’ultimo. Mentre nel secondo caso il possessore del lavoro è lavoratore solo in potenza poiché non disponendo di riserve e credito non può realizzarsi come tale se non vendendo il proprio lavoro, che diviene lavoro coatto, e rinunciando ai suoi diritti sul plusvalore.

L’alienazione

Il concetto di alienazione costituisce il terzo principio del marxismo. Esso descrive la modalità del rapporto tra forze produttive e sovrastrutture sociali. Queste forze si caratterizzano per la loro natura dialettica, cioè pur essendo un risultato dell’attività umana, cioè del lavoro sociale, si oggettivano in strutture, sistemi, processi, cioè istituzioni sociali, che sfuggono al controllo di coloro che le hanno create, ciò in quanto producono effetti che negano la causa che li ha prodotti, cioè ostacolano lo sviluppo del lavoro sociale. Quindi alla base dell’alienazione agisce un processo dialettico, che si dispiega in un movimento storico che nega se stesso e pertanto contradditorio. Di qui la tendenza ad autonomizzarsi in quanto tali strutture vengono percepite dai loro creatori, per la loro contradditorietà, non nella loro realtà di prodotti dell’attività umana ma piuttosto alla stregua di fenomeni naturali, perché hanno un carattere incomprensibile ed incontrollabile analogo a quello degli eventi prodotti nell’ambiente naturale. Sotto il capitale questo processo contradditorio si manifesta sul piano materiale come crisi di sovraproduzione ricorrenti, cui seguono massicce distruzioni di capitale costante, e sul piano sociale come dominio del capitale sul lavoro sociale. Quando la società si trova in questa condizione è una società alienata. Tale rapporto contradditorio con se stessa provoca allora una distorsione della coscienza per la quale viene persa la nozione di struttura in quanto prodotto sociale e quindi prodotto umano. Pertanto il vero carattere dell’attività che ne è all’origine diviene inconscio dando origine a ciò che in ogni società alienata caratterizza l’attività sociale, la falsa coscienza. Quindi anche le descrizione e la teoria di tali fenomeni è una congerie di travisamenti che impediscono una percezione della realtà di tali fenomeni.
Compito primario della società che si trova prigioniera di tali equivoci è quindi la conquista della coscienza teorica della natura di tali fenomeni e prima di tutto del loro carattere di prodotti sociali, ciò allo scopo di comprendere la dinamica di questi fenomeni al fine di rimuoverne la causa principale. Questa è indicata dal materialismo che dichiara che la coscienza non possiede una sua autonomia, poiché sorge da una base materiale che la condiziona, cioè dal modo di produzione. Di conseguenza chi dispone di tale base è in grado di determinare la prassi sociale e quindi la coscienza tramite il possesso di tale base materiale. Per cui il conseguimento di una coscienza teorica è subordinato ad un mutamento di tale base e poiché essa è la struttura fondamentale della società il superamento di tale falsa coscienza è uno sviluppo parallelo a quello in cui i produttori si impadroniscono di tale struttura. Ciò implica che se tale struttura è sfuggita al controllo dei produttori ciò è accaduto in quanto i produttori sono stati espropriati di tale struttura, la quale è costituita dai mezzi di produzione. Questo significa che esiste una classe di non-produttori che sono i proprietari dei mezzi di produzione e una classe non solo priva di mezzi di produzione ma una classe per la quale i mezzi di produzione sono estranei in quanto usati contro di loro dai proprietari. Ciò produce nei produttori una forma di coscienza ostile al lavoro sociale e ai suoi oggetti. Ma questa è una falsa coscienza in quanto all’origine dell’alienazione non sono gli oggetti ma una società divisa in classi, essenzialmente in una classe di proprietari non-produttori e una di produttori non-proprietari. Questa è la realtà che sta dietro l’ideologia prodotta dalla falsa coscienza. Poiché la percezione di questa realtà produce la coscienza dell’espropriazione del lavoro dei non-proprietari da parte dei proprietari, o piuttosto dell’illegittimità di tale espropriazione, il mantenimento di tale falsa coscienza è una condizione fondamentale della perpetuazione dell’alienazione. Alla realizzazione di questo fine vengono usati primariamente i mezzi di produzione come strumenti di dominio, quindi contro i produttori. D’altra parte le forze produttive sono il lavoro sociale e le sue oggettivazioni. Per cui la causa dell’alienazione sociale è l’alienazione del lavoro sociale, cioè l’alienazione dell’attività produttiva sociale, che è divenuta proprietà di una frazione minoritaria della società.
Risultato fondamentale della presa di coscienza è la consapevolezza che l’attività umana che si realizza come prassi sociale è il lavoro sociale. Il lavoro sociale si oggettiva nella trasformazione degli oggetti naturali in oggetti sociali i quali costituiscono il mondo umano che così viene creato come parte della natura ma tendenzialmente autonoma rispetto ad essa in quanto essendo prodotto umano è in linea di principio subordinata al suo creatore. Invece accade che gli oggetti sociali si autonomizzano come accade per gli oggetti naturali, per cui nonostante siano un prodotto sociale, vengono considerati alla stregua di oggetti naturali sottoposti a leggi oggettive che dominano il mondo sociale. L’esempio più cospicuo è dato dal mondo delle merci. Qui il lavoro sociale ha appena iniziato a svilupparsi nella forma di mezzi di produzione materiali ma inizia subito a generare un processo di alienazione. Le merci, questi oggetti creati nell’ambito della divisione del lavoro sociale per soddisfare i bisogni umani, una volta immessi nel mercato iniziano a muoversi autonomamente e invece di essere subordinate ai produttori obbligano i loro creatori ad adeguarsi ai loro movimenti. Quando il lavoro sociale si è sviluppato, cioè sotto il capitale, anche nella produzione accade che i mezzi di produzione, concepiti per alleviare le fatiche del lavoro, in realtà lo rendono oppressivo oltre ogni limite. Infatti ciò accade perché il movimento delle macchine, questi strumenti inanimati e infaticabili, non segue come dovrebbe il ritmo del produttore che lo utilizza ma al contrario il produttore è costretto a seguire il ritmo di lavoro della macchina, che essendo un oggetto inanimato, può in linea di principio essere aumentato a volontà. Come può accadere questo, che la società produca oggetti dai quali scaturiscono risultati del tutto opposti a quelli per cui erano stati prodotti? Ciò è possibile in quanto questi sono oggetti prodotti socialmente, cioè non per il consumo dei produttori, ma per lo scambio. Ma non solo, più precisamente il prodotto viene realizzato per la creazione di plusvalore il quale viene in generale acquisito dal proprietario dei mezzi di produzione, cioè dei mezzi di lavoro (le macchine e le materie prime) e dei mezzi di sostentamento (i salari dei produttori). Ma ciò avviene nell’ambito di un processo contradditorio. Se da una parte il proprietario ha un precipuo interesse ad aumentare la produttività del lavoro in quanto maggiore è la massa del prodotto e maggiore è il plusvalore, dall’altra tale sviluppo non ha come fine il consumo, ma il plusvalore. Pertanto da una partesi ha sviluppo del lavoro sociale nella forma di mezzi di produzione, dall’altra la sua negazione nella forma del dominio del lavoro sociale.
Più in generale si può dire che nella società capitalista la maggior causa di alienazione sta nel fatto che essa ha come fondamento la scienza, perché è dalle sue applicazioni ai processi produttivi è scaturito il macchinismo. Ma se la scienza costituisce la grande forza produttiva della società attuale, di essa si è appropriato il capitalismo, perciò appare come forza produttiva del capitale, sebbene la scienza come forza produttiva sia piuttosto un prodotto storico. Di qui il suo carattere contradditorio che ne fa una forza produttiva alienata. Da un lato costituisce una forza costruttiva in quanto ha determinato un enorme aumento della produttività del lavoro sociale. Ma dall’altro appare come una forza distruttiva poiché il suo sviluppo è accompagnato da un parallelo sviluppo dell’alienazione, cioè dalla perdita del controllo sociale di tali forze, che si autonomizzano producendo più danni che vantaggi, ad esempio problemi ambientali, ma non solo. Tali conseguenze negative dello sviluppo della scienza applicata non contraddicono il fatto che essa è la forma assunta dal lavoro sociale al culmine del suo sviluppo. Ma esso è pervenuto a tale apice in concomitanza con la nascita e l’affermazione del capitale che ha costituito il contesto sociale dello sviluppo della scienza ma anche del suo lato oscuro.
Così anche per le merci. Il mercato e lo scambio sono l’altra grande forza produttiva, perché danno luogo alla divisione del lavoro. Anch’ essa giunge al sua completo sviluppo sotto il capitale ed ha anch’essa il suo lato negativo. Poiché i produttori operano in un regime di concorrenza ciascuno ha interesse a vendere la propria merce, cioè il proprio prodotto, al prezzo più alto e a comperare al prezzo più basso. In un regime di concorrenza i due livelli tendono ad identificarsi e rimane sul mercato chi riesce a mantenere quel prezzo. Il prezzo di mercato perciò è frutto di una molteplicità di scambi indipendenti il cui risultato, un prezzo di mercato oscillante che nessun produttore può determinare definitivamente. Se il produttore ha come unica risorsa il suo lavoro si trova in balia di eventi imprevedibili, come se vivesse ancora allo stato di natura. Quindi l’aver costruito un mondo umano in cui trovare riparo dalle contingenze della vita selvaggia sembra in realtà un cambiamento in peggio delle sue condizioni di vita. Se prima disponeva di tutta la natura e le sue infinite risorse, per quanto precarie, per ricavare da essa la sopravvivenza, ora dispone di un’unica risorsa il suo lavoro specializzato, per ricavarvi da vivere. Quindi si trova perennemente in pericolo perché se il suo lavoro è fuori mercato non possiede alcuna altra riserva se non una forza lavoro totalmente squalificata, da cui può ricavare ben poco.



2. STRUTTURA DEL MARXISMO II

CONSEGUENZE

Materialismo ed economia politica

Il materialismo in quanto visione del mondo contrapposta all’idealismo, ha radici antiche. Nasce nella Grecia classica con Democrito. Si sviluppa successivamente con Epicuro e lo Stoicismo. Si contrappone all’idealismo platonico, di fronte al quale occupa una posizione minoritaria. Rappresenta una corrente filosofica critica rispetto al pensiero delle classi dominanti essenzialmente idealistico, mentre le filosofie materialiste rispecchiano quello delle classi subordinate.
Durante il Medioevo cristiano, epoca prima filosoficamente platonizzante poi aristotelica ma sempre metafisica, il pensiero materialista scompare per riemergere come materialismo moderno dopo la Riforma. In quanto espressione del pensiero borghese combatte non solo lo spiritualismo della Chiesa Cattolica ma anche quello della Riforma, che promuove un ritorno alle origini del cristianesimo. Da questa lotta contro la metafisica nasce il materialismo moderno che trionfa nel Settecento illuminista come pensiero della borghesia rivoluzionaria. Qui si può constatare quale ruolo fondamentale ha svolto lo spiritualismo come avversario con cui dovette misurarsi il materialismo, che in questa lotta approfondì e perfezionò i suoi contenuti per poter contrastare validamente il suo avversario. .
Il materialismo moderno è un risultato della vittoria dell’Illuminismo sulla teologia, ma subito si scinde in due correnti. Da una parte un materialismo scientifico orientato verso una impostazione empirista e razionalista e con un proprio strumento di indagine, il metodo scientifico, che rappresenta una sintesi di empirismo e razionalismo. Dall’altra sorge un materialismo umanistico e sociale, ad opera di Helvetius, d’Holbach, LaMettrie, Condillac e altri. Questo materialismo è i il risultato di una evoluzione dell’empirismo inglese verso il sensismo e mette al centro del suo discorso l’uomo concreto, sebbene considerato ancora come individuo isolato ma nell’ambito di una teoria della morale materialista, preparando così il terreno a Marx che considererà l’uomo nei suoi rapporti materiali con gli altri uomini e la natura, rapporti determinati dall’interesse economico, cioè materiali. Tali rapporti generano gli altri rapporti sociali e quando vengono proiettati in ambito storico producono una particolare visione della storia, il materialismo storico. Tale discorso è l’esito più maturo della corrente del materialismo sociale. Come tale il materialismo storico può porsi come teoria della storia e può pretendere la qualifica di teoria in quanto il materialismo cui fa riferimento è il materialismo economico. Infatti l’economia assume lo status di scienza proprio in concomitanza al sorgere del materialismo storico, divenendo la sua ossatura fondamentale. Per cui Marx, il fondatore del materialismo storico, può a buon diritto affermare che esso nasce essenzialmente come sintesi tra la teoria politica francese e l’economia politica inglese. Ma per Marx l’elemento unificatore delle due teorie è una terza teoria, da cui trae lo schema generale del movimento storico. Si tratta della filosofia hegeliana, nella quale Marx trova già sviluppata tutta la sua visione della storia, però espressa in termini idealistici. Per cui Marx può assumere il quadro generale della visione storica di Hegel, svolta in termini idealistici, e tradurla in termini materialistici, cioè interpretando i fatti storici in chiave materialista, sulla scorta della scienza economica. Sostanzialmente Marx scorge l’esistenza fra la filosofia hegeliana e il materialismo storico un rapporto duale, per cui è possibile passare da l’una all’altra semplicemente mutando il linguaggio, cioè sostituendo la terminologia idealistica con quella dell’economia politica. E’ questo il noto capovolgimento dell’idealismo hegeliano operato da Marx. Cioè la grande scoperta di Marx è l’aver trovato che l’opposizione tra idealismo e materialismo è essenzialmente linguistica, cioè che in realtà si tratta di un medesimo discorso espresso con due linguaggi diversi. Cioè Marx con il capovolgimento della filosofia hegeliana scopre che tra idealismo e materialismo esiste un rapporto simile a quello che in matematica è denominato isomorfismo, che costituisce, appunto il rapporto esistente fra due teorie quando si può passare da l’una all’altra semplicemente mutando il significato dei simboli, per cui quello che è stato dimostrato in una teoria rimane immediatamente valido anche nell’altra. Questo fatto permette non solo una grande economia di pensiero, cioè sintesi potenti, ma ha pure un profondo significato concettuale.
Naturalmente in pratica le cose non sono così semplici. Cambiando i concetti cambia l’interpretazione dei fenomeni che vanno considerati da un diverso angolo visuale. Poi nel caso specifico del materialismo vi è il fatto che nel materialismo naturalistico vige la logica formale mentre nell’idealismo hegeliano vale la logica dialettica. Per cui nasce il problema del ruolo della contraddizione nei due sistemi. Infatti ciò che li distingue è il fatto che nell’idealismo la contraddizione è il fondamento di tutto il sistema, perché lì è la fonte del movimento che caratterizza questa logica essenzialmente dinamica, mentre nella logica formale vale, come principio essenziale, la legge del terzo escluso (cioè, per dirla con gli eleati: tra essere e non essere non esiste il medio), per cui l’esistenza in un discorso di una contraddizione invalida tutte le conclusioni che se ne possono trarre. In particolare è possibile dimostrare qualunque asserto. Nel discorso marxiano non solo non è possibile escludere la contraddizione, eredità trasmessa al marxismo dall’hegelismo, ma essa svolge un ruolo essenziale in relazione alla categoria dell’alienazione. Quindi è necessario non solo includere nel materialismo il concetto di alienazione, ma è necessario interpretarlo materialisticamente. .
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Alienazione e economia politica: interesse generale e interesse particolare.

Considerando la storia in termini generali si può constatare che si producono vicende intrinsecamente contradditorie che quindi possono essere descritte e comprese solo con strumenti analitici diversi dal metodo scientifico. Si tratta di fenomeni che si verificano essenzialmente in ambito sociale, i quali possono essere trattati solo ricorrendo alla dialettica, pensiero per il quale la contraddizione è parte integrante di un concetto in quanto indice della sua inadeguatezza e quindi della necessità del suo sviluppo storico per divenire vero. Ad esempio l’alienazione come autonomizzazione dei prodotti del lavoro sociale; la divisione del lavoro come risultato dell’opposizione fra gli interessi egoistici; realizzazione dello scambio tra merci eterogenee nonostante l’assenza di un metro comune; rovesciamento del soggetto in oggetto e viceversa, cioè i fenomeni di personificazione dell’oggetto e reificazione del soggetto. In effetti si può rilevare che all’origine di questi fenomeni vi sono fattori in contrasto tra di loro e/oppure con il risultato della loro azione, cioè che danno luogo a fenomeni contradditori.
Ma poiché, secondo il materialismo, tutte le formazioni sociali sono condizionate dai rapporti economici di produzione, se queste sono contradditorie è perché lo sono i rapporti di produzione. Infatti la teoria della “mano invisibile”, per la quale il contrasto fra interessi a livello individuale realizza a livello generale l’interesse collettivo, che risulta palesemente in contraddizione con le premesse egoistiche. Il feticismo delle merci, cioè la loro personificazione, deriva dalla contraddittorietà del fenomeno dello scambio: infatti qui si è di fronte ad una contraddizione tra valore di scambio e valore d’uso, poiché i prodotti vengono creati per il consumo ma per divenire tali devono prima passare per il mercato e apparire come valori di scambio, che è la negazione del valore d’uso in quanto il fine dello scambio diventa il valore.. Oppure il fatto che l’abolizione dell’alienazione nel rapporto con la natura si risolve in un’altra e più straniante alienazione, quella sociale dovuta al fatto che al fine di uscire dall’alienazione naturale le società umane devono organizzarsi in strutture produttive cioè devono sviluppare la produttività del lavoro e quindi socializzare il lavoro.
Tutte queste contraddizioni particolari hanno in comune il fatto che la loro base è l’economia. Ciò significa che l’economia è intrinsecamente contradditoria. Ma se il mondo sociale nasconde una contraddizione questa deve risiedere in ciò che lo ha prodotto nel processo di produzione, cioè nei rapporti fra i fattori economici nel processo di produzione. Infatti considerando la cosa ad un livello più profondo si constata che l’economia è contradditoria perché è il risultato di due fattori tra loro contradditori. Da una parte l’interesse generale in cui il rapporto di produzione si manifesta come cooperazione nel lavoro sociale, quindi come razionalità economica, e di conseguenza come appropriazione e consumo collettivo del prodotto. Dall’altra l’interesse particolare, che si oggettiva come attività e appropriazione individuale del risultato, in cui il rapporto di produzione si manifesta in forma conflittuale nella concorrenza e nel consumo esteriormente alla dimensione sociale. Questi due fattori pur essendo in contraddizione sono entrambi necessari allo svolgimento dell’attività economica. Il primo per la realizzazione completa delle facoltà umane, quindi per ottenere con i mezzi disponibili il risultato migliore, il secondo per la mobilitazione delle energie umane, che considerate nella loro immediatezza sono energia individuale. Infatti il primo fattore costituisce l’aspetto razionale dell’economia, il secondo l’aspetto sopravvivenziale. Ma se tali fattori sono entrambi necessari per la realizzazione della pratica economica al contempo sono in conflitto in quanto ciascuno ostacola l’azione dell’altro. Infatti l’iniziativa individuale è frenata dai vincoli organizzativi, quella collettiva dalla iniziativa individuale scoordinata rispetto l’azione collettiva.
Da qui la contraddizione che domina l’economia. Essa sorge in due modi che conducono alla stessa alienazione. Se nella contraddizione predomina l’interesse generale il funzionamento dell’economia prende la forma di una struttura sociale gerarchica ed autoritaria. Ma ciò fa sì che il mondo sociale, costruito dagli uomini per soddisfare le proprie esigenze venga posto e percepito come una entità compatta, incontrollabile e ostile, dimenticando che è opera sociale prodotta per la società. Oppure, se prevale l’interesse individuale, si perviene ad un mondo dominato dall’anarchia sociale, in cui ciascuno si chiude nell’autosufficienza e accetta il principio della concorrenza, che pone ciascun produttore contro tutti gli altri. In tal modo in entrambi i casi si perviene al fraintendimento che li comprende tutti: considerare il mondo umano come se fosse parte del mondo naturale e rapportarsi con esso come nel mondo naturale, cioè secondo il principio “mors tua vita mea”. Ciò equivale a non comprendere che la società umana è un prodotto dell’attività degli uomini. Qui il trionfo della razionalità produce il suo opposto. Alienazione lato sensu è non rendersi conto di ciò e la falsa coscienza che porta a questa percezione è la coscienza alienata. Qui si manifesta già la prima grande contraddizione: il superamento dell’alienazione naturale invece di portare all’abolizione dell’alienazione apre la strada ad una nuova alienazione, per molti versi peggiore della precedente, l’alienazione sociale.
Questa si manifesta secondo due modalità apparentemente opposte. Infatti nascono i due tipi fondamentali di società alienate, la società mercantile e la società burocratica. In ciascuna di esse le contraddizioni particolari assumono forme peculiari. Lo scambio del soggetto con l’oggetto nelle società mercantile assume la forma del feticismo delle merci, mentre nella società burocratica la forma è quella della personificazione dei mezzi di produzione. La causa reale del feticismo è l’accettazione da parte dei produttori indipendenti della libera concorrenza, cioè della instaurazione fra di essi di rapporti particolaristici. Mentre la personificazione deriva dall’uso dei mezzi di produzione per fini particolaristici in una struttura di rapporti di produzione fondata sulla cooperazione. Poiché gli effetti della prevalenza dell’interesse individuale sono molteplici, nel “mercato perfetto”, come si è già visto, l’irrazionale prevalere degli interessi particolari genera spontaneamente la divisione del lavoro ottimale, che è l’espressione dell’interesse collettivo. Questa contraddizione è comune a tutte le società mercantili, ma il capitalismo sviluppa una contraddizione che gli è peculiare. Nel tentativo di conciliare questi due fattori il capitalismo viene trascinato a creare la sua fondamentale contraddizione, quella che lo caratterizza e che scomparirà solo con la sua fine. Si tratta del fatto che nella divisione del lavoro capitalista si ha da una parte una socializzazione completa del lavoro realizzata attraverso la divisione del lavoro manifatturiera, che raggiunge con il taylorismo il suo massimo sviluppo, e dall’altra una appropriazione individuale del prodotto.

Conclusione.

In conclusione se il mondo dell’economia viene sviscerato fino in fondo si può constatare che esso è un intrecciarsi di contraddizioni che producono inevitabilmente in coloro che lo hanno creato una falsa coscienza che impedisce loro di trarne i benefici in vista dei quali esso era stato costruito. Si tratta di una varietà incredibilmente estesa di false percezioni di quello che è il mondo reale in cui si sviluppa la storia umana, percezioni che è necessario cancellare. Ma la base di tutte queste distorsioni della coscienza è l’economia. Quindi per riformare e trasformare le coscienze è necessario cominciare dalla loro origine, il lavoro sociale e pertanto dai rapporti sociali di produzione in cui il lavoro sociale si concretizza. Le diverse forme di alienazione sono inviluppate le une con le altre e tutte insieme possono essere fatte risalire alla contraddizione sociale fondamentale del lavoro sociale, quella tra interesse generale e interesse individuale. Me se questo è vero in astratto nel concreto delle diverse alienazioni particolari e le contraddizioni specifiche che ne sono l’origine, è necessario agire nello specifico, perché l’alienazione generale è difficile da cogliere nella sua astrazione, ma diventa concreta nelle sue espressioni particolari. Là è possibile afferrarla nelle sue implicazioni e colpirla a morte.



L’ALIENAZIONE I (2.0).

3. CONTRADDIZIONE TRA RAPPORTI DI PRODUZIONE E DOMINIO.

Marx e l’alienazione.

Marx in quanto materialista coerente prende in considerazione l’influenza del modo di produzione sulla coscienza sociale sviluppando la teoria dell’alienazione. Indubbiamente si tratta di un fenomeno sovrastrutturale, quindi secondario. Tuttavia ha molta importanza a livello soggettivo in quanto qui si colloca la critica dell’ideologia. Certo in ciò Marx, proprio nel momento in cui dichiara la sua discontinuità rispetto a Hegel, deve ammettere anche il suo debito verso di lui. Per cui più che capovolgere materialisticamente la dialettica hegeliana Marx corre il rischio di rimanerne intrappolato perché nel tentativo di conciliare due discorsi antitetici deve fare alla dialettica non poche concessioni, traendone così intorno ad essa un discorso che appare nebuloso e frammentario. Ma non si può negare che questa contaminazione della dialettica con il materialismo produce un grandioso ed affascinante affresco dal quale traspaiono concetti che, sebbene solo abbozzati, sono carichi di suggestioni che meritano di essere approfondite, seguendo in ciò Marx che già aveva percorso un buon tratto di questo cammino effettuando il celebre rovesciamento dell’idealismo hegeliano. Marx utilizza a tal fine materializzandola la categoria dell’alienazione, interpretandola come il carattere che assume in certe circostanze il rapporto degli uomini con le cose e fra di loro Questa relazione si realizza all’interno della società come rapporto di dominio tra gli uomini, rapporto determinato da quello tra gli uomini e la natura, ma soprattutto da quello con le cose da loro prodotte, per cui invece di essere gli uomini ad usare le cose, sono le cose stesse che sono sottratte al controllo umano e quindi dominano gli uomini, in modo tale che si può affermare che le cose si personificano e gli uomini si reificano. Queste cose non sono necessariamente solo quelle materiali. Infatti Marx descrive tale fenomeno soprattutto in due ambiti: la religione e l’economia politica. Nel primo caso tratta delle ideologie religiose che, proiettate nella trascendenza, finiscono per dominare i loro creatori. Nel secondo prende in esame le categorie dell’economia: merce, denaro, capitale, ecc. e constata che le loro materializzazioni anche qui dominano i loro creatori.
Prima di svolgere tale argomento è necessario chiarire che l’uso che in questo testo palesemente viene fatto del linguaggio dell’idealismo, è puramente strumentale, in quanto i termini idealistici sono straordinariamente adatti ad un discorso attorno all’alienazione e permettono di parlarne evitando lunghe e complesse perifrasi inevitabili quando si applica un linguaggio materialistico a un discorso marcatamente idealistico. Però è necessario assumersi all’occorrenza l’impegno di tradurre tutto il discorso in termini materialistici. Qui si tenterà di mantenere ben separati il linguaggio dell’idealismo dai contenuti materialisti, in modo da evitare fraintendimenti, partendo dall’assunto che prima vi è la materia, dopo compare l’idea, cioè prima viene l’analisi poi la sintesi. Nel caso di Hegel ci troviamo di fronte ad una narrazione mitica, che per essere accettabile va ricondotta ai suoi fondamenti materialisti, effettuando il classico “rovesciamento”, del quale Marx ha indicato la strada.
In Marx tale analisi è appena abbozzata. Infatti, riferendosi al capitalismo, Marx traccia un quadro dell’alienazione frammentario, come insieme di descrizioni corrispondenti a punti di vista diversi, senza comporle in un discorso unitario. Questo modo di esposizione è inevitabile quando si tratta di descrivere un oggetto contradditorio e indefinito, per cui diviene necessario rappresentarlo qualitativamente per metafore, procedimento questo proprio dell’idealismo, che non rinuncia a discorrere di ciò che dichiara indicibile. La qualificazione fondamentale è quella che considera l’alienazione come espropriazione, riferita innanzitutto al lavoro salariato, che è la forma in cui appare sotto il capitale. Vi è poi l’alienazione come inversione del rapporto tra soggetto e oggetto, che allude ad un rapporto di dominio fra di loro. A questa definizione è connessa l’idea di personificazione dell’oggetto e il fenomeno opposto della reificazione del soggetto, concetti che conducono all’idea di inversione di soggetto e oggetto. Infine vi è l’idea dell’alienazione come feticismo che propriamente può essere definito come personificazione della merce.
Perché il concetto di alienazione sia valido occorre interpretarlo materialisticamente. Ciò è possibile riconducendo tutti i concetti astratti di alienazione a quello concreto di alienazione del lavoro. Infatti i concetti astratti rappresentano tutti aspetti dello sfruttamento. Esso infatti presuppone un rapporto di dominio che a sua volta determina l’inversione e questa si concretizza nella reificazione e nella personalizzazione, di cui il feticismo è un caso particolare. Quindi una prima caratterizzazione dell’alienazione è quella di rapporto di dominio di cui bisogna scoprire l’origine e la dinamica. Secondo l’idealismo, l’alienazione è un processo in cui lo Spirito si estroverte producendo delle proiezioni del suo essere, che assumono forma materiale. Ma queste proiezioni non sono inizialmente riconosciute del loro creatore come proprie produzioni, in quanto queste, non essendo comprese come parte di sé, si autonomizzano e divengono entità imprevedibili e al limite ostili. Compito dello Spirito è ricondurre a sé tali proiezioni riconoscendole come proprie creazioni e così sottomettendole. Nell’interpretazione materialistica questa “avventura dello spirito” è una metafora della storia umana vista in quanto vicenda dell’ “uomo che fa se stesso” attraverso il lavoro. L’uomo infatti ad un certo punto perde il controllo del suo lavoro divenuto sempre più lavoro sociale, che in tanto si socializza in quanto si aliena. La metafora è trasparente: le classi subordinare vengono espropriate della loro forza lavoro ma questa alienazione è il prezzo da pagare per lo sviluppo delle forze produttive, base necessaria per la creazione di una società a misura d’uomo. La storia umana è lo svolgimento di questo processo in cui l’uomo è impegnato a riprendere il controllo delle sue forze produttive riconoscendole innanzitutto come proprie forze, che da una parte minacciano di travolgerlo, dall’altra costituiscono il mezzo per realizzarsi compiutamente come specie.
Questa è la teoria dell’alienazione, ma è una ipotesi che deve trovare riscontro nel contenuto di coscienza degli individui. Ma l’interpretazione marxiana del rapporto tra individui e realtà del capitale come feticizzazione rappresenta tutt’al più una metafora descrittiva, una sorta di mito laico. Se però è vero che gli oggetti che costituiscono un sistema economico non hanno una personalità però esprimono una personalità, individuale o collettiva, in quanto sono strumenti realizzati allo scopo di oggettivare tale personalità. Infatti dietro tali strumenti sta la personalità del capitalista che li manovra, per cui essi realizzano le esigenze del capitalista e hanno sul lavoro quel potere che il capitalista conferisce loro in quanto strumenti di cui ha pieno possesso, quindi anche pieno controllo. Considerando il fenomeno dalla parte del soggetto, cioè come reificazione del soggetto, l’asservimento degli individui sembra sorgere immediatamente dalle cose, da un rapporto con esse che riduce gli individui a oggetti passivi e quindi a cose, mentre innalza queste alla soggettività. Sembra così che vengano riprodotte le condizioni che determinano l’alienazione naturale. Ma in realtà si tratta di un rapporto sociale di produzione alienato, a sua volta determinato da un rapporto inadeguato della società nel suo complesso con la materialità delle cose. Per cui l’alienazione sociale è mediata dall’alienazione naturale. D’altra parte ogni forma di alienazione, pur condividendo con le altre certe caratteristiche generali, ha una sua dinamica particolare che va indagata caso per caso.
Fin qui è stata descritta tutta la dinamica dell’alienazione a livello sociale senza considerare le cause di tale dinamica. In realtà si è detto che l’inadeguatezza del rapporto sociale trova la sua origine in una analoga inadeguatezza del rapporto della società con la natura. Resta da spiegare tale legame fra i due rapporti e la sua origine. La spiegazione è immediata ed è data dal materialismo storico. Nelle società primitive, ma in ultima analisi non solo in quelle, il rapporto che la società intrattiene con la natura è inadeguato perché tale è lo sviluppo delle forze produttive, cioè della produttività del lavoro. Ciò a sua volta fa sì che lo siano immediatamente anche i rapporti sociali. Infatti conseguenza immediata è una condizione di penuria che spinge ogni gruppo sociale a compiere aggressioni presso altri gruppi per approvvigionarsi di ciò di cui è carente a spese degli altri gruppi, innescando una catena senza fine di incursioni e rappresaglie. Cioè la condizione dell’umanità primitiva è quella hobbesiana di una conflittualità permanente. In origine queste razzie endemiche avevano come fine il consumo immediato del bottino, ma con la rivoluzione agricola, divenne possibile stabilizzare il rapporto di subordinazione dei gruppi più deboli a quelli più bellicosi in quanto divenne possibile la creazione di un plusprodotto. Quindi la razzia divenne conquista, lo scopo passò dal consumo immediato del bottino alla costituzione di riserve e quindi la possibilità per i loro possessori di investire in un ampliamento delle attività agricole. Così nasce una classe dominante che concentra in sé la ricchezza sociale e che è all’origine dell’alienazione sociale. Ma tutto questo complesso svolgimento è determinato dal livello di sviluppo delle forze produttive.

Feticismo

Quando gli oggetti materiali sono considerati in rapporto alla concezione che una società ha del mondo acquisiscono nell’immaginario collettivo proprietà nuove che dipendono dal modo in cui sono considerati nel contesto delle attività sociali. Tipiche sono le qualità economiche come il prezzo, il profitto, l’interesse. A queste qualità non corrisponde a nulla di reale ma solo una prassi sociale regolata da norme determinate. Queste possono essere organizzate in codici fondati su principi generali aventi una struttura logico-deduttiva, oppure essere espresse in una mitologia, come sempre accade nel pensiero religioso. Tuttavia entrambe queste formulazioni hanno la loro base in una tacita convenzione sociale che conferisce il crisma della realtà alle qualità ideologiche delle cose, cioè a certe qualità immaginarie che si sovrappongono a quelle empiriche. Queste qualità ideologiche non dipendono da quelle empiriche ma queste ultime sono condizione necessaria ma non sufficiente per l’esistenza delle prime. (Ad esempio il valore di scambio dipende dall’esistenza del valore d’uso). Questi sistemi di pensiero, sia quelli a struttura razionale che quelli di forma irrazionale sono le ideologie, cioè la forma concettualizzata dell’alienazione. L’economia appartiene al primo tipo, la religione è l’esempio più rilevante del secondo. La “nuova oggettività” che viene attribuita alle cose è un velo ideologico che ha la funzione di occultare il contenuto reale dell’attività degli individui a vantaggio di qualche gruppo sociale. Queste qualità immaginarie attribuite alle cose possono arrivare a conferire ad esse i tratti di una personalità, ma questa esiste solo in quanto dietro alle cose stanno degli individui, i quali utilizzano tale realtà fantasmatica per i propri fini. Questo gioco di specchi può coinvolgere anche il soggetto che così acquisisce una nuova soggettività, che può arrivare ad assumere i caratteri dell’oggettività, pervenendo così alla reificazione.
Quindi le qualità ideologiche proiettate sulla cosa empirica attraverso un discorso ideologico non trasformano la sua apparenza ma vi aggiungono un quid metafisico, creando così un rapporto immaginario, ma effettivamente operante tra soggetto e oggetto, giungendo in casi estremi ad un rapporto allucinatorio. Qui si arriva ad una alienazione realmente vissuta, fenomeno che però si verifica solo nella religione dove assume le sembianze del misticismo. Ma tale fenomeno compare anche in campi più ristretti come ad esempio nel nazionalismo e nella passione sportiva, che hanno molto in comune con il fanatismo religioso. Un altro campo nel quale il processo di feticizzazione della realtà materiale giunge a livelli molto avanzati è quello delle arti visive: pittura, scultura ed architettura. I musei e i siti archeologici come recinti sacri, lo straordinario potere di fascinazione, la fruizione come rituale: sono tutti tratti che avvicinano l’arte alla religione. Le immagini e i luoghi in passato potevano assumere carattere sacro. Ora questa sacralità è svanita ma non il potere di coinvolgimento emotivo, che ha solo cambiato di contenuto.
In realtà tutti i contenuti intellettuali sono potenzialmente ideologici, perché in quanto prodotti del pensiero tendono a materializzarsi come afferma l’idealismo, che effettivamente in questo coglie il segno. E’ l’attività sociale che materializza il pensiero ma così corre il rischio di alienarsi perché il sociale è teatro di antagonismi e perciò può sempre incarnare l’errore. Questo può accadere in ogni campo del pensiero: la scienza può scadere in scientismo, la filosofia in metafisica; e nella pratica sociale le istituzioni possono trasformarsi in strumenti di asservimento: lo stato, il partito, la chiesa, l’esercito. Segno del carattere alienato di una scienza particolare è la pretesa di universalità, cioè di pensiero totalitario; per una istituzione la sua separatezza dal resto della società.
L’ideologia, come pensiero sociale della totalità, è il pensiero della classe dominante, quindi in quanto tale è il pensiero dominante. Può essere più o meno razionale ma è sempre strumentale, cioè funzionale al mantenimento del dominio. Questo significa che ha sempre carattere apologetico rispetto alla classe dominante ed ha come fine quello di giustificare la sua posizione privilegiata, cioè il suo porsi come unico vero soggetto.. Infatti le convenzioni sociali che fanno da supporto all’ideologia sono in realtà delle imposizioni che la classe dominante fa gravare su tutta la società. Infatti occorre sottolineare due aspetti fondamentali dell’ideologia. Il fatto che l’ideologia sia strumentale rispetto agli interessi della classe dominante non è accidentale ma è proprio ciò che determina il suo carattere ideologico. E’ l’origine della sua formazione come della sua decadenza quando non è più idonea al suo scopo, per cui si indebolisce e si dissolve quando il dominio delle classe di cui è il sostegno entra in crisi. L’altro aspetto della funzione sociale dell’ideologia è quello di veicolo della produzione culturale di una società. Si può affermare che nulla di tutto ciò che determina lo sviluppo materiale e intellettuale di una società può affermarsi al di fuori dell’ideologia, almeno fino a quando essa è pensiero dominante. Infatti, almeno inizialmente, nemmeno il pensiero rivoluzionario può svilupparsi al di fuori di essa. Nella sua stessa rivoluzione la borghesia ha dovuto usare nelle prime fasi il linguaggio religioso, quello del suo principale avversario, per dare forma organica alle sue istanze, cioè per poter pensare la sua rivoluzione. Infatti l’ideologia costituisce allo stesso tempo un freno per lo sviluppo sociale e una base indispensabile per il suo progresso. Cioè la produzione di ideologia accompagna la produzione di pensiero progressivo e viceversa. Questo rapporto contradditorio è del tutto analogo a quello che nella produzione esiste tra processo di lavoro, cioè sviluppo della produzione di valori d’uso, e processo di valorizzazione, cioè di produzione di valore. In entrambi i casi i due processi sono inscindibili.

L’alienazione naturale

Il significato fondamentale e più generale di “rapporto alienato” è quello di un rapporto in cui il soggetto appare dominato dal mondo esterno, cioè in cui l’oggetto domina il soggetto. Questo dominio può realizzarsi in molti modi, ma tutti, per il principio materialista, sono il risultato di un rapporto insufficiente della società con le cose. Quindi il dominio viene esercitato sempre dalle cose, che in tal caso divengono soggetto, sugli uomini direttamente o indirettamente mediante gli uomini. Il mondo esterno cui appartengono le cose può essere quello naturale, allora si tratta di alienazione naturale; oppure può essere quello già prodotto dall’uomo, allora l’alienazione è quella sociale. L’alienazione naturale è la condizione ordinaria delle società primitive, dove il basso grado di sviluppo delle forze produttive fa sì che siano dominate dall’ambiente naturale in cui sono immerse. Per esse si può affermare che l’oggetto, cioè la natura primordiale, dominando totalmente il soggetto, cioè la società umana, diviene esso stesso il vero soggetto, per cui si determina una personificazione dell’oggetto. Correlativamente il soggetto nel rapporto viene posto come l’oggetto effettivo.
La forma originaria dell’alienazione è quella che si afferma nel rapporto con la natura. Seguendo Hegel si può affermare che compito del soggetto alienato è allora quello di ritrovare se stesso, cioè il suo vero carattere, quello di essere autonomo rispetto al mondo esteriore, cioè alla natura. Deve conseguire ciò superando la sua condizione di alienazione, cioè la sua riduzione ad essere passivo, a cosa, in balia di una natura straripante, quindi deve superare la sua reificazione. Seguendo ancora Hegel si può dire che l’intero processo si esplica come dialettica della libertà, ma se l’uomo certamente è caratterizzato dall’essere libero, cioè incondizionato, però lo è solo potenzialmente, per cui deve conquistare la sua verità realizzandosi come essere libero. Ma non si tratta della libertà astratta dell’uomo astratto ma, interpretando materialisticamente l’idealismo hegeliano, della libertà dalla tirannia della materia attraverso una soluzione umana del problema economico. Qui si vede quale è l’unica soluzione adeguata della questione su cosa è la natura umana. Evidentemente se è l’uomo che fa se stesso, la natura umana non esiste come a priori ma solo come definizione che l’uomo da di se stesso.
Dare questa definizione e realizzarla questo è il compito del movimento rivoluzionario, che assolve ad esso materialmente prima ancora che idealmente. Infatti la sua teoria è fondata su un postulato che è l’esatto opposto di quello corrispondente dell’idealismo: non sono le idee a determinare la realtà materiale, ma al contrario è quest’ultima la fonte del pensiero. L’hegelismo, quale espressione compiuta dell’idealismo e quindi la più coerente, afferma esplicitamente che il mondo materiale è una creazione dello spirito. In principio soggetto ed oggetto sono identici, poi si separano. Di qui inizia la lunga “odissea dello spirito” che lo porterà a riconoscere nel mondo materiale una espressione di se stesso e quindi a identificarsi in esso, pervenendo così ad una nuova unità di soggetto ed oggetto, superiore a quella anteriore alla scissione, unità nella quale può infine quietarsi.
Non occorre sottolineare il carattere essenzialmente mitologico di questa narrazione, che richiama fortemente lo gnosticismo e quindi Platone e la sua filosofia, ancora impregnata di pensiero mitico. Egli fa largamente uso del mito nell’esposizione del suo pensiero, attingendo quindi abbondantemente alle fonti del pensiero primitivo, cioè allo sciamanesimo, i cui contenuti erano ancora ben vivi nella cultura dell’epoca appena separatesi dal pensiero mitico delle società naturali. Queste sono le radici dell’idealismo, ma il pensiero primitivo stesso sorge dalle condizioni di vita della società primitiva. Per comprenderlo si tratta quindi di trovare questo rapporto e quindi discernere in queste testimonianze ciò che si riferisce alle condizioni di vita materiali e le istituzioni sociali che le esprimono, separandole dalla parte puramente mitologica, per poi constatare il loro legame. In questa impresa è possibile appoggiarsi all’enorme materiale accumulato dall’antropologia scientifica. Operazione questa già tentata da Marx e soprattutto da Engels, nel suo fondamentale testo “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato”, sulla scorta di L. H. Morgan, con un lavoro pionieristico che essi consideravano parte essenziale della teoria rivoluzionaria. Tale lavoro si concentra essenzialmente nella ricerca delle tracce lasciate nel mondo attuale del comunismo primitivo, quale struttura sociale che caratterizza le società primitive, per evidenziarne il carattere sostanzialmente conservatore, che porta alla sua dissoluzione. Ma che al tempo stesso questo carattere delle società primitive viene recuperato dalla teoria rivoluzionaria moderna portandolo ad un livello più elevato sulla base dello sviluppo sociale e materiale realizzatosi nel tempo intercorso.
Il pensiero corrispondente a questa condizione, quella dell’alienazione originaria, è la religione primitiva, che infatti si caratterizza come animismo o feticismo, cioè come idolatria, per il fatto che alle cose viene attribuita esplicitamente una personalità, una soggettività e poteri sovrumani, facendone così degli esseri superiori da cui guardarsi per il loro comportamento imprevedibile, esseri enigmatici in grado di imporre agli uomini la loro volontà, in un rapporto di subordinazione. Questa visione del mondo non è che il tentativo messo in atto dalla società primitiva, - il soggetto, - di rappresentarsi le proprie condizioni di esistenza, - l’oggetto, - al fine di porle sotto il proprio controllo. Quindi la religione è una pratica di controllo dell’ambiente tipica delle società primitive, pratica che corrisponde alla limitatezza di quel controllo, fondato essenzialmente sulla magia, mentre la teoria si riduce alla elaborazione di miti.

L’alienazione sociale

Con lo sviluppo delle forze produttive sociali cresce la fiducia delle collettività umane nelle proprie forze e quindi il controllo della società sull’ambiente naturale. Pertanto si riduce progressivamente l’alienazione naturale, così come perde di credibilità il mito. Ma non per questo l’alienazione complessiva diminuisce. Infatti parallelamente alla riduzione dell’alienazione naturale si sviluppa una nuova forma di alienazione la cui origine non è più la natura ma paradossalmente la società stessa. L’accresciuta produttività del lavoro sociale getta la grande maggioranza della società una miseria a livelli mai toccati e l’arricchimento smisurato di una minoranza che domina la società. Infatti nella società compare un elemento sconosciuto alle società primitive, il plusprodotto, che si colloca fuori dalla sfera della necessità, cioè della produzione della semplice sopravvivenza del produttore, quindi della sua riproduzione. La comparsa del plusprodotto costituisce un punto di svolta nella storia in quanto segna il passaggio dall’economia della penuria a quella dell’abbondanza. Però ciò paradossalmente non genera una società del benessere. Infatti alla comparsa del plusprodotto corrisponde una nuova forma di espropriazione, cioè una espropriazione sistematica e regolare, non più sporadica ma permanente, che però lascia all’espropriato la vita e il necessario per sopravvivere, ma al solo scopo di renderlo una fonte permanente di reddito per l’espropriatore. Ma in tali condizioni la produzione di un plusprodotto non è spontanea e deve essere imposta, per cui compare nella società la conflittualità interna. Questa conflittualità interna è la negazione delle motivazioni che sono all’origine delle comunità umane: la reciproca protezione dalle minacce provenienti dall’esterno. Essa nasce dal fatto che la società, posta di fronte al problema di chi deve essere sottoposto all’obbligo di produrre e di come distribuire il sovraprodotto, si scinde in frammenti ostili fra loro, ciascuno dei quali tenta di dominare gli altri e l’intera società. Cioè ciascuno di essi vuole essere l’unico soggetto e ridurre il resto della società ad un oggetto. Questi frammenti sono le classi. Con la loro formazione inizia una nuova fase di sviluppo dell’alienazione, che da naturale diviene sociale. Infatti la dialettica delle classi, cioè la lotta di classe, fa sì che una classe prevalga sulle altre e divenga classe dominante, che si ponga come soggetto mentre le altre divengono l’oggetto in quanto classi asservite. Il risultato complessivo di questo processo è che il soggetto reale, cioè la società, si trova di fronte ad un mondo che è produzione del soggetto stesso, che tuttavia gli appare estraneo e ostile. Prima l’alienazione era qualcosa di dato e indipendente da lui, ora appare come un suo prodotto. Ciò è tanto più paradossale in quanto è in contraddizione col fatto che il sovraprodotto è il risultato dello sviluppo delle forze produttive sociali, cioè dello sviluppo del lavoro sociale. Questo aspetto del fenomeno rappresenta il carattere dialettico della categoria dell’alienazione, il fatto di essere una categoria contradditoria in quanto nasce dalla circostanza per cui lo sviluppo delle forze produttive, benché attuato allo scopo di realizzare l’abbondanza e la libertà, produce al contrario miseria e asservimento. Quindi si tratta di un concetto dialettico e come tale va analizzato al pari degli analoghi concetti di cui è ricca la teoria sociale.

Occorre notare che se l’alienazione sociale è un fenomeno che coinvolge tutta la società, non coinvolge tutti allo stesso modo. Sembra riguardare esclusivamente le classi subordinate mentre la classe dominante ha un rapporto con le cose, che sono qui non più prodotti naturali ma sociali, di dominio. Infatti al contrario delle classi subordinate, non appare dominata dalle cose ma le domina ed usa tale dominio per sottomettere i produttori. Ma questo è vero solo in prima approssimazione, cioè considerando le classi come blocchi sociali compatti. In realtà le classi sono affette da rapporti interni conflittuali e solo la rivalità fra le classi le mantiene unite. In particolare la classe dominante è in perenne conflitto con se stessa. Ad esempio nella classe borghese ciascun capitale deve affrontare la concorrenza degli altri capitali. Quindi anche la classe dominante è coinvolta nella conflittualità generale, cioè si trova in balia delle cose di cui ha perduto il controllo.
Giungendo all’epoca attuale, quella nella quale l’alienazione sociale ha raggiunto il massimo sviluppo, si può affermare che il pensiero dell’attuale condizione sociale è l’economia politica. Ciò che è significativo al riguardo è che essa, quale ideologia della società di classe borghese, ha la medesima struttura del pensiero religioso. Infatti in entrambe vengono attribuiti alle cose e alle persone speciali qualità, che nel caso della religione ne fanno un oggetto o una persona sacra, nel caso dell’economia ne fanno un valore o un creatore di valore. Ma non solo. Vi sono molte ideologie, ciascuna dotata di un proprio potere di trasfigurazione: nel caso della politica ne fa una autorità o un simbolo del potere, in campo artistico un’opera d’arte o un artista. Il possesso di queste qualità conferiscono all’oggetto o alla persona un potere sulle cose, e attraverso le cose sulle persone, che viene attribuito alle loro qualità naturali. Questa struttura di rapporti deriva da una falsa percezione dell’oggetto che sia nel caso della religione che in quello dell’economia proviene da un rapporto pratico con l’oggetto ancora poco sviluppato, che apre la strada all’instaurazione di un complesso di convenzioni sociali che formano una ideologia, cioè una falsa coscienza. Ma in entrambi i casi l’ideologia non è mai neutrale: il suo contenuto è tale da poter essere utilizzato dalla classe dominante per giustificare i suoi privilegi.
Ma questa analogia tra tipi diversi di alienazione ha un carattere del tutto particolare. Essa ha luogo come una percezione del mondo allucinatoria, simile al sogno, cioè con una coscienza solo parziale e distorta, visione che viene mantenuta nonostante le smentite della prassi reale, in quanto l’indeterminatezza di tale discorso non vale a svelare l’inganno ma permette invece di sminuire i fatti che possono mettere in crisi tale credenza. Per cui l’immagine ideologica del mondo risulta inattaccabile dal pensiero razionale. Al contrario il mondo dell’alienazione sociale è sotto gli occhi di tutti, essendo sceso dal cielo dell’ideologia religiosa al mondo terrestre della vita materiale, ma l’alienazione non viene percepita come tale, cioè come contraddizione tra realtà concreta ed apparenza ideologica. E’ invece considerata come proprietà naturale delle cose e dei rapporti sociali mentre la percezione di essi cessa di essere pienamente cosciente. Ma data la similarità dell’alienazione sociale con quella religiosa, ed essendo quest’ultima meglio conosciuta perché superata, attraverso quest’ultima si può conoscere anche la prima. Cioè si può rendere evidenti i contenuti dell’alienazione sociale e portarli alla coscienza utilizzando i risultati della critica alla religione. Già Marx affermava che “la critica della religione è il presupposto di ogni critica” e lui stesso era giunto alla critica dell’economia politica passando per la critica della religione. Marx stesso del resto ha sviluppato una critica dell’ideologia economica mettendone in rilievo l’analogia strutturale con la religione. Con ciò non si intende sostenere che la teoria economica della borghesia sia una religione e sia percepita come tale ma semplicemente sottolineare l’analogia tra i due discorsi in modo che criticato l’uno è liquidato anche l’altro. Ma vi sono anche delle differenze. Nella religione la base dell’ideologia è la fede, cioè la credenza effettiva nel sovrannaturale, mentre nell’economia è la convenzione sociale, che in taluni casi può tradursi in un fanatismo di tipo religioso, e ciò accade non raramente pur essendo l’economia un fatto troppo materiale per ispirare misticismo. Un’altra differenza sta nel fatto che nell’alienazione naturale sia l’oggetto che il soggetto sono posti dall’oggetto stesso, cioè dalla natura, mentre nell’alienazione sociale l’oggetto, ma anche il soggetto, sono prodotti dal soggetto stesso, cioè dalla società. E’ vero che producendo il suo mondo “l’uomo fa se stesso”, ma assolve a questo compito producendo al contempo la sua alienazione.

L’ “oggettività spettrale” delle merci

In quanto i valori d’uso appaiono senza eccezione come merci,
ricevono una nuova oggettività

(Lukacs, Storia e coscienza di classe, Sugar, p.120)

Un esempio particolarmente trasparente di alienazione sociale è il feticismo delle merci. In una società mercantile semplice il modo di produzione è fondato sul lavoro di produttori indipendenti, che producono e scambiano i loro prodotti liberamente. Poiché ciascun produttore compie le sue scelte economiche indipendentemente da tutti gli altri, la concorrenza generale tra i produttori determina un sistema economico dove i prezzi delle merci, quindi il valore del lavoro, variano in maniera imprevedibile, determinando condizioni di esistenza dominate dall’incertezza, analoghe a quelle dell’ambiente naturale. Qui l’alienazione si manifesta a due livelli e tali modalità sono conseguenza della precedente circostanza. Da una parte accade che le merci siano in relazione fra loro nel mercato, relazione che determina il loro valore relativo e tutte le loro qualità economiche, prima fra tutte il loro prezzo. Ma dietro ciascuna merce sta il proprietario, cioè il produttore o lo scambista, la cui esistenza dipende dalla sorte incontrata sul mercato dalla sua merce, cioè dalla sua produzione e proprietà. Dipendendo da essa però il produttore si trova subordinato ad essa. Da proprietario della merce si trova in realtà in una condizione di dipendenza dalla sua merce, quindi è lui ad essere proprietà della merce. Ciò significa che la massa complessiva delle merci, in quanto domina i suoi produttori, nel rapporto con essi è il soggetto, mentre l’insieme dei produttori si trova nella condizione di oggetto. Quindi anche nell’alienazione sociale ci troviamo di fronte ad una inversione nel rapporto tra soggetto e oggetto.
L’altra conseguenza, dove l’alienazione genera un suo primo superamento ancora incosciente, è che gli individui non sono più in relazione sociale diretta fra di loro né nella produzione, né nella circolazione, ma solo in quest’ultima sono in relazione indiretta mediante le loro merci nel rapporto di scambio. Ciò determina un fatto paradossale, che degli individui isolati formano un sistema di divisione del lavoro non organizzato coscientemente, ma al prezzo di essere in balia del movimento casuale di un apparato in cui ciascuno è libero e allo stesso tempo è subordinato ad un sistema fuori del suo controllo.
Invece nella società capitalistica, cioè nella divisione del lavoro manifatturiera, il risultato cui si perviene, oltre allo sfruttamento della forza lavoro, è l’inverso del precedente. Anche qui si verifica una condizione di isolamento del singolo produttore, che è totale come rapporto diretto fra i produttori, ma nella produzione ogni produttore si trova in relazione con il capitalista o un suo rappresentante e tramite esso è in rapporto indiretto con gli altri produttori nel luogo di lavoro. Nonostante ciò la massa dei salariati, pur essendo radunata dal capitale in luoghi specifici e in una stessa condizione, non si unifica soggettivamente, se non per eccezione. La situazione non si modifica con l’introduzione delle macchine. Nel caso di una fabbrica meccanizzata il rapporto tra i produttori è mediato dalle macchine. La macchina esalta ulteriormente la trasformazione del rapporto di proprietà in rapporto di dominio sulla forza lavoro. Il movimento della macchina determina il ritmo del lavoro in quanto obbliga l’operatore umano a lavorare con la stessa cadenza. Questo si verifica in quanto dietro la macchina sta il sorvegliante e dietro di lui il capitalista. Il capitalista nella manifattura è fisicamente presente per sorvegliare l’operaio. Nella fabbrica sembra scomparire ma in realtà la sua funzione di sorvegliante è assorbita dalla macchina. Perciò si può affermare che all’atto pratico la macchina ha assorbito la personalità del capitalista. Al contempo l’operaio, ridotto ad un organo della macchina, si può dire reificato. Nuovamente si verifica una trasformazione dell’oggetto in soggetto e viceversa. Questo fenomeno si produceva già nella manifattura, in cui operaio e capitalista erano direttamente in rapporto, dove l’operaio era ridotto ad una macchina e il capitale monetario assumeva la personalità del capitalista in quanto sua estrinsecazione. Nella fabbrica questo trasformazione diventa evidente, al punto che la metafora dell’inversione diviene tangibile.
Il problema si pone già con la merce, quindi nella circolazione, ma in termini più sfumati. Per essa si giunge alla conclusione che, essendo le merci oggetti sociali, esse hanno rapporti sociali e quindi sono non solo metaforicamente dei soggetti, ma che abbiano una personalità. Tale discorso, posto in questi termini, va ovviamente respinto. Il parallelismo con la religione ci permette di affermare che le metafore idealiste sono tali e se una cosa assume una personalità è perché dietro di essa vi è una persona della quale la cosa è strumento; che, se una persona si trasforma in una cosa ciò accade quando nelle sue relazioni con il mondo assume un ruolo passivo in quanto è strumento di qualcuno. Nel caso delle macchine ciò è evidente, nel caso della merce sembra che manchi il conflitto, condizione perché si sviluppi questa ideologia. In realtà la società mercantile semplice è solo un modello astratto poiché in essa esiste bensì la merce, quindi la divisione del lavoro, ma non le classi. Infatti si tratta in realtà di un travestimento del mito settecentesco del “buon selvaggio”. Non vi è alcun motivo, anche in questo caso, perché questi borghesi mascherati da selvaggi debbano costituire una società essendo tutti produttori indipendenti, e in perenne conflitto tra di loro. In realtà si tratta del modello presociale di Hobbes, del “bellum omnium contra omnes”, per cui ciascun individuo è nemico di tutti gli altri, economicamente parlando. Quindi le merci, le singole merci, possono essere di volta in volta strumento di guadagno di chi è favorito dall’andamento del mercato e quindi di perdita per chi è sfavorito. Pertanto la merce assume la personalità di chi è in grado di condizionare il mercato.

Torino, novembre, 2015
Valerio Bertello



L’ALIENAZIONE II (2.0)

4. ALIENAZIONE E METODO

Del particolare non si dà scienza
Aristotele

L’alienazione in generale

Vale per l’alienazione la definizione di particolare rapporto degli uomini fra di loro e con le cose. Questo si costituisce come rapporto di dominio fra gli individui (AI), come supremazia di una parte della società sull’altra. In quanto tale si tratta di un rapporto fra gli individui inadeguato ma nella sua limitazione è a sua volta determinato dal rapporto degli uomini con le cose, - siano esse oggetti naturali o prodotti del lavoro umano, - altrettanto inadeguato in quanto invece di essere gli individui ad usare le cose queste appaiono sottratte al controllo umano e sono esse a condizionare gli uomini, quindi a dominarli. Ma se le cose svolgono un ruolo attivo e gli individui sono invece passivi di fronte ad esse, si può affermare che le cose si personificano e gli individui si reificano. Ma ciò accade poiché in tale contesto una classe può impadronirsi di quelle cose che costituiscono le risorse che assicurano la sopravvivenza della società e le usa a proprio esclusivo vantaggio. Ciò significa che attraverso queste cose, usate come strumenti di potere, una classe può instaurare il proprio dominio sulla società. Questo dominio assume sempre la forma di un rapporto di sfruttamento, cioè di un rapporto nel quale le classi subordinate sono obbligate a produrre non solo per sé ma anche per la classe egemone, i proprietari delle risorse, e a trasferire parte del loro prodotto alla classe dominante. Perciò le cose, quelle che formano il mondo naturale e quelle già trasformate da mondo naturale e ostile in mezzo di sopravvivenza artificiale ma utile, sono al contempo sia mezzi di sopravvivenza, sia strumenti di oppressione e di comando appartenenti alla classe dominante, per cui la natura umanizzata da questi costituita appare altrettanto ostile quanto la natura originaria. Pertanto nel rapporto con i loro produttori le cose del mondo umano sembrano animate da uno spirito demoniaco poiché sembrano assumere le sembianze di una personalità, quella della classe proprietaria. Carattere fondamentale del processo di alienazione è la sua contradditorietà: lo sviluppo dei mezzi di produzione nel momento in cui libera gli individui dall’alienazione naturale li fa sprofondare in una nuova e più profonda alienazione, quella sociale.
Infine nella misura in cui il suo dominio si accresce la classe dominante si fa sostenitrice di una visione del mondo, di solito codificata in un sistema di pensiero, nella quale il rapporto di sfruttamento viene non solo giustificato ma posto come diritto e privilegio delle classi superiori e come dovere per gli sfruttati. Si tratta sempre di un discorso apologetico dei rapporti di potere esistenti, volto a ottenere il consenso delle classi subordinate al mantenimento della società nella forma presente. E’ questa l’ideologia, prodotto intellettuale della classe dominante, nella quale essa esprime il suo pensiero, cioè esprime i suoi interessi in concetti mistificati. Nella misura in cui tale rapporto di subordinazione all’interno della società viene accettato o in virtù dell’ideologia assimilata come componente fondamentale della cultura della società, o per il fatto che la classe dominante dispone del monopolio della forza materiale, o più spesso per mezzo di entrambe, il rapporto della società con il mondo naturale, benché umanizzato, regredisce al livello dell’alienazione originaria, quando il rapporto con la natura era un rapporto immediato di dominio delle cose sugli uomini. Ciò si verifica perché ora l’alienazione viene ricreata all’interno della società, dove le cose non sono più un prodotto naturale ma sociale e possono essere materiali o immateriali, per cui essa si presenta come alienazione sociale, che qui media l’alienazione naturale.
La dinamica dell’alienazione sopra descritta è propriamente quella dell’alienazione sociale, che si riferisce ad una intera epoca, quella della società di classe, situazione nella quale l’alienazione è il risultato di una dialettica tra rapporti sociali, quindi rapporti esistenti all’interno di un gruppo sociale fra i suoi membri, e rapporto tra la società e il mondo naturale. Tuttavia occorre presupporre l’esistenza di una alienazione naturale anteriore a quella sociale, avente origine diversa, in quanto propria dell’uomo originario, cioè immerso nella natura e privo di ogni strumento di sopravvivenza derivante dalla produzione di una natura modificata dagli uomini. Quello che segue è in prima approssimazione lo schema di sviluppo dell’alienazione, parte integrante della sua definizione.
L’alienazione naturale è oggettiva perché determinata immediatamente da un fattore oggettivo, l’insufficiente grado di sviluppo delle forze produttive. Mentre l’alienazione sociale è determinata non da un inadeguato livello di sviluppo delle forze produttive, sviluppo che ben presto raggiunge un livello che di per sé sarebbe vicino a quello sufficiente a superare l’alienazione, ma qui l’alienazione è mediata dall’insufficiente sviluppo dei rapporti sociali, poiché questi, soprattutto i rapporti di produzione, - che determinano tutti gli altri, - tendono a svilupparsi con un certo ritardo rispetto quello delle forze produttive. Per cui stentano ad adeguarsi alle nuove forze produttive in quanto il loro sviluppo implica l’abbandono dello spirito solidaristico che caratterizzava le comunità primitive. Così, da un certo momento in poi, che può essere identificato con la nascita dell’economia di scambio, lo sviluppo dei rapporti di produzione tende a determinare non un rapporto di cooperazione, ma sistemi produttivi fondati sulle potenzialità del singolo individuo in concorrenza con altri individui che producono nelle stesse condizioni, sebbene il grado di socializzazione dei mezzi di produzione obblighi le società ad adottare sempre più soluzioni di compromesso. Ma il clima predominante è sempre quello della conflittualità che genera nei produttori un rapporto alienato con i mezzi di produzione in quanto sono percepiti come elementi di un ambiente ostile, rapporto che porta alla loro personificazione e alla corrispondente reificazione dei soggetti.

Premessa metodologica

Quindi le due prime categorie dell’alienazione sono l’alienazione naturale e l’alienazione sociale. Il capitalismo è il punto più alto della seconda, in quanto è un modo di produzione nel quale le tendenze allo sviluppo sono quelle che portano alla creazione dell’individuo alienato. Quindi è nel capitalismo che la dinamica dell’alienazione appare più sviluppata e si mostra in forma più evidente. Infatti lo schema di sviluppo dell’alienazione e le sue categorie fondamentali sono facilmente deducibili da una analisi critica del rapporto di produzione capitalistico. Ma il meccanismo dell’alienazione quale appare nel capitalismo, cioè il feticismo delle categorie economiche, è un processo, cioè una tendenza, che si è sviluppata storicamente e che contiene in sé come forme ad esso subordinate tutte le forme di alienazione che lo hanno storicamente preceduto, quindi può essere utilizzato per spiegare quelle forme ancora incomplete. Cioè le forme più sviluppate spiegano quelle meno sviluppate. Questo è il metodo delle scienze storiche, in cui hegelianamente è l’intero processo di sviluppo di un concetto quello che ha valore esplicativo. Quindi occorre analizzare e integrare in un unico modello diverse forme sociali e mostrare come siano parte di un unico processo dal quale emergono nel loro sviluppo le categorie che spiegano le diverse situazioni storiche. Ma, quanto al metodo, nell’esposizione della questione, è importante evidenziare che il discorso esplicativo è stato tratto da un caso specifico, il capitalismo. Ma per quanto significativo, non si può affermare che lo sviluppo del capitalismo spieghi di per sé l’origine dell’alienazione. Occorre compiere ancora due passi: prima bisogna considerare le forme ancora immature delle categorie in cui si esprime l’alienazione identificando le forme sociali anteriori al capitalismo nelle quali iniziarono a svilupparsi il processo di alienazione. Poi è necessario applicare la teoria così dedotta a casi specifici diversi dai precedenti, che dopo il precedente passaggio dal concreto all’astratto è un ritorno al concreto, per controllare che la teoria è verificata in altri casi oltre quello sulla base dei quali è stata costruita. Cioè occorre dopo il primo passaggio compierne un altro in senso opposto, cioè dall’astratto al concreto. Questo principio metodologico è proprio del metodo scientifico, dove il secondo passaggio corrisponde al principio sperimentale, che nella scienza storica, essendo impossibili gli esperimenti sotto condizioni controllate, deve essere limitato alla semplice osservazione. E’ quanto ci proponiamo di fare: inizieremo con l’alienazione religiosa, cui seguirà l’analisi dell’alienazione come feticismo. Ad esse vengono applicate le categorie dell’alienazione dedotte dal capitalismo. Poi verificheremo la teoria in un caso particolarmente importante, il nazionalismo.
Naturalmente non si può affrontare questo argomento senza riferirsi ai risultati già raggiunti da Marx che ha svolto un’analisi approfondita su ciascuno di questi tipi di alienazione. Ma il suo lavoro si ferma ai preliminari e le sue analisi rimangono frammentarie e non giungono ad una definizione generale di alienazione. Tuttavia questo lavoro costituisce un punto di partenza imprescindibile, innanzi tutto come linguaggio, che sostanzialmente è una terminologia hegeliana, ma che acquista un nuovo significato in relazione al noto rovesciamento materialistico della dialettica attuato da Marx. Sulla base di tali precedenti si può affermare che il significato del termine alienazione è quello di espropriazione materiale. Quindi se si vuole dare una definizione unitaria a tale concetto ogni forma di alienazione deve potersi ricondurre a tale significato. In particolare l’alienazione viene descritta come scambio tra soggetto e oggetto; e tale aspetto è connesso con l’idea di personificazione dell’oggetto e quella ad essa complementare di reificazione del soggetto. Infine vi è ancora l’alienazione come feticismo. Tutti questi vanno considerati come diversi aspetti dell’alienazione e nella definizione generale vanno tutti ricollegati al concetto di alienazione come espropriazione. Il significato di questi aspetti dell’alienazione emergerà nell’applicazione della definizione già data a casi specifici di contesti alienati.

L’alienazione religiosa

L’ideologia religiosa è la più antica delle alienazioni e il modello di tutte le successive. Si connette direttamente con l’alienazione naturale di cui rappresenta l’ideologia nella forma dell’animismo, che costituisce la prima forma della religione. In generale l’ideologia religiosa è fondata sulla subordinazione ad una entità suprema, circondata spesso ma non sempre da una corte di divinità minori. Questo essere supremo è il creatore di ogni cosa, quindi il proprietario dell’intero universo, proprietà di cui usa ed abusa. Infatti è il supremo regolatore dell’universo, per cui stabilisce i compiti di ciascuno e la sua posizione nelle gerarchie sociali che così vengono sacralizzate e rese immutabili. Ciascuno è quindi tenuto ad obbedire alla volontà degli dei che è sempre in sintonia con quella della classe dominante. Pertanto le figure divine sono null’altro che la proiezione nella trascendenza delle aspirazioni della classe dominante e solo di riflesso di quelle delle classi subordinate. Non si tratta perciò delle aspirazioni dell’uomo astratto, come viene affermato da Feuerbach. Quindi per le classi subordinate il mondo, poiché appare regolato da una volontà estranea e dispotica, si presenta dominato da forze maligne e pertanto come un ambiente ostile che le opprime. Quindi il mondo delle immagini religiose, che costituisce l’oggetto, domina il soggetto cioè la società che lo ha prodotto, quindi è il vero soggetto, mentre il soggetto, cioè la società che ha perso il controllo delle sue creazioni, diviene il vero oggetto. Nonostante ciò la classe dominante trova nell’alienazione la sua realizzazione e trae vantaggio dall’ideologia religiosa che usa come strumento di dominio. L’ideologia religiosa è già presente nelle comunità primitive nella forma dell’animismo, che è soprattutto una visione del mondo e consiste nell’attribuire alle cose volontà e coscienza. Ma non è la causa dell’alienazione, piuttosto ne è il prodotto. Infatti non essendoci ancora in questa fase le classi, la religione è un prodotto collettivo. Nemmeno costituisce una ideologia, cioè una falsa coscienza, in quanto è una fedele rappresentazione della visione del mondo che è condivisa da tutta la società, cioè di una visione del mondo che non ha finalità di dominio e che ha una sua validità pratica limitata, come tutte le rappresentazioni della realtà. Si tratta infatti del primo tentativo di costruire una immagine del mondo che permetta di migliorare le possibilità di sopravvivenza, tentativo cui partecipano tutti i membri della comunità su di un piede di parità a vantaggio dell’intera società. Ma tale condizione di esistenza della società è instabile. Quando tale attività eminentemente pratica giunge ad un certo grado di complessità, nascono gli specialisti del sacro, che ben presto formano una casta a parte che monopolizza tale funzione, cioè la gestione delle astrazioni, costituendo così un gruppo di potere.

Il feticismo delle merci

Un’altra situazione anomala dove l’alienazione sociale è poco sviluppata è quella della società mercantile semplice, anch’essa caratterizzata dall’assenza di classi, quindi di una classe dominante e di un pensiero ideologico dominante da essa elaborato. Ma occorre chiarire subito che tale economia più che un modo di produzione è il denominatore comune a tutte le società mercantili, cioè quello dove vige una economia di scambio, come accade sia per il capitalismo che per la società antica, ma non per l’economia curtense medievale. Ma in realtà non si tratta di una vera società in quanto è formata da produttori indipendenti che entrano in relazione fra di loro solo attraverso le loro merci che essi immettono nel mercato, dove però sono in concorrenza fra di loro. Quindi, un tale gruppo di individui atomizzato non può formare una classe e tanto meno una società. Infatti tale situazione sociale era stata ipotizzata dall’economia politica classica per dimostrare i suoi teoremi sulle leggi dell’economia capitalistica immaginando che la nascita di una economia di scambio sia avvenuta in tempi preistorici in una umanità costituita da individui isolati. Ma la realtà storica è diversa. Il capitale sviluppato, quello industriale, è stato preceduto da forme di capitale più rozze, quale è il capitale commerciale, sebbene la legge del valore neghi che dallo scambio di merci possa nascere plusvalore e quindi neghi che vi possa essere accumulazione. Quindi il capitale commerciale deve provenire dall’esterno violando la legge del valore, o operando su mercati separati, per cui nasce col commercio a lunga distanza, oppure alterando fraudolentemente il mercato mediante pratiche scorrette, come l’accaparramento di merci. In tali condizioni gli scambisti più deboli vedono ridursi il valore delle loro merci e si vedono derubati dal capitale commerciale. Questo poi produrrà una ideologia volta a giustificare questo arricchimento improduttivo, che ovviamente sarà un elogio del libero scambio e dei servizi che in questo modo il commercio procura alla nazione. Lo scambista singolo e isolato, che vende la piccola quantità di merce prodotta per il suo consumo, si trova in una situazione di completa precarietà, in balia di un mercato il cui andamento è imprevedibile o manipolato dal grande capitale, e ne attribuisce la colpa alle merci stesse, vedendo nella loro qualità fisica l’origine del loro valore e della loro valorizzazione. Il suo mondo è un mondo di merci, che il singolo scambista percepisce come una minaccia, per cui l’oggetto è per lui l’intera massa delle merci, cioè il mercato, mentre il soggetto è l’insieme degli scambisti. Ma il mercato è di per sé instabile, fonte non di una sopravvivenza sicura ma di incertezza; inoltre l’intervento del capitale commerciale trasforma il mercato in strumento di sfruttamento dei piccoli produttori, che assume le sembianze degli sfruttatori personalizzandosi e apparendo ideologicamente il vero soggetto, mentre l’insieme degli scambisti, che non controlla più il suo prodotto diviene il vero oggetto, quindi si reifica.

Quindi le forme di alienazione che precedono storicamente quella capitalista, cioè quella del capitale sviluppato, possono essere ricondotte ad essa. Cioè vi si ritrovano le categorie essenziali, sebbene meno sviluppate, o mescolate fra di loro, oppure collegate ad una base materiale inadeguata. Ad esempio, nel feticismo l’alienazione del produttore indipendente è senza dubbio minore di quella del proletario; nel feticismo il dominio dell’oggetto sul soggetto deriva dalla incapacità di quest’ultimo di organizzare socialmente la produzione, e solo secondariamente dall’intervento del capitale; nell’alienazione religiosa l’oggetto è costituito da proiezioni psichiche. Ma queste affermazioni sono possibili solo facendo il confronto con il capitalismo. Quindi la forma di alienazione più sviluppata è quella che può spiegare le forme che storicamente la precedono.
Lo schema fondamentale sotteso a tutte le forme fin ad ora esaminate è l’esistenza di una scissione nella società per cui una parte della società domina e priva dei frutti del suo lavoro l’altra, frattura che può essere descritta come inversione reciproca fra soggetto e oggetto, per cui ciascuno si trasforma nell’altro. Questo scambio di ruoli viene al tempo stesso esaltato e occultato dalla classe dominante attraverso la diffusione di un discorso apologetico dell’esistente, cioè un sistema di pensiero ideologico. Tale quadro costituisce sostanzialmente modello esplicativo delle dinamiche sociali. Esso viene tratto dall’esame di quei casi che si ritengono particolarmente significativi perché storicamente più sviluppati, deducendo da essi i concetti che descrivono unitariamente un processo storico. Lo stesso modello viene rintracciato nelle forme storiche immature. Ma questa non è ancora la teoria. Fino a questo punto il discorso è ancora ipotetico. Per essere una teoria deve poter essere applicato a casi diversi da quelli da cui prende origine. Se l’operazione ha successo il modello acquisisce attendibilità, tanto maggiore quanto più la sua applicabilità si estende. E’ quanto verrà compiuto qui di seguito limitatamente a un solo caso, a titolo di esempio. Verrà preso in considerazione un solo caso ma particolarmente importante per la storia recente e anche per quella contemporanea, il nazionalismo.

L’alienazione nazionalista

Ad un primo sguardo il nazionalismo sembra avere molto in comune con la religione ed infatti esso stesso dichiara essere “religione della patria”. Infatti al centro del nazionalismo troviamo l’idea di patria, equivalente a quello di nazione. Entrambe sono indissolubilmente legate ad un certo insieme di caratteri oggettivi comuni a tutta una popolazione ed al territorio in cui risiede, che sono elementi di carattere storico e geografico. Pertanto ciò è come dire che il nazionalismo prescinde dagli aspetti economici, giuridici e politici della società in quanto questi non sono in genere specifici di un popolo, ma possono appartenere a stati diversi mentre i primi appartengono in modo quasi esclusivo ad una certa popolazione e quindi possono conferire una identità. Quindi i primi sono caratteri nazionali, i secondi sovranazionali. I caratteri nazionali sono un potente mezzo di identificazione per gli individui su scala spaziale e temporale molto grande, superiore a quella originaria che non andava oltre il livello tribale e sembrava inadeguato a costituire la base di una nazione moderna. Invece i caratteri politici ed economici definiscono la società come stato, cioè come comunità la cui adesione da parte degli individui è basata essenzialmente su di un atto di volontà, quindi su di un fatto giuridico. Atto che porta all’acquisizione della cittadinanza e che è reversibile, mentre la nazionalità si acquisisce con la nascita ed è un fatto indipendente dalla volontà. Per questo i caratteri nazionali sono oggettivi, perché fissati nel tempo e nello spazio, mentre quelli che danno origine alla cittadinanza sono soggettivi in quanto sono liberamente creati o modificati, accettati o rifiutati. L’insieme dei caratteri oggettivi costituisce quindi quell’oggetto sociale denominato nazione. Essa, nonostante le apparenze, non è il prodotto storico di una popolazione, che costituisce il soggetto, in quanto è fondata su elementi oggettivi, astorici quali la stirpe e il territorio. La nazione è una comunità che è certamente articolata e ricca di contenuti, ma si presenta statica e rivolta al passato. Inoltre essa si presenta come comunità totalizzante e quindi superiore ad ogni altra, sia all’interno che all’esterno, quindi superiore alle classi sociali e ad ogni comunità diversa da essa. Per queste sue caratteristiche e per il forte potere di aggregazione l’idea di nazione viene trasformata dalla classe dominante in ideologia nazionalistica che viene da essa utilizzata per costruire il mito della patria. Quello che è un insieme di elementi oggettivi viene storicizzato, presentandolo come un processo che ha portato alla formazione della patria. La classe dominante si identifica con tale concetto e lo usa sia per mantenere la coesione sociale, sia per combattere qualunque gruppo sociale che possa indebolire il suo potere. Per cui le classi subordinate si vedono contrapporre alle loro aspirazioni di emancipazione sociale il mito dell’unità nazionale. Questo viene presentato come alternativa alla lotta di classe sia ponendo la realizzazione della grandezza della nazione come obbiettivo alternativo alle loro rivendicazioni, quindi tentando di coinvolgere le classi dominate in una politica espansionista. Oppure ne fanno oggetto di esecrazione sociale accusandole di minare l’unità della nazione attentando alla pace sociale. Di fatto ciò significa invocare l’unità della nazione contro un nemico, interno o esterno, riuscendo in questo modo a sopire tutti i contrasti sociali e a mantenere immutati a loro vantaggio i rapporti di potere. Così si realizza una situazione in cui le classi subordinate percepiscono il concetto di nazione e l’ ideologia nazionalistica come potenze ostili che li mantengono in una condizione di servitù. In tal modo un mito che originariamente, nella società gentilizia, simboleggiava la comunità ed era stato prodotto dalla comunità stessa, nelle mani della classe dominante diventa strumento di oppressione fuori del controllo dei suoi creatori. Quindi da oggetto diviene soggetto, mentre i suoi creatori asserviti a tale mitologia da soggetto divengono oggetto. Alla fine di questo processo il mito della patria da vita ad una figura trascendente che ingloba tutti gli attributi della patria, cioè si personalizza. Mentre il soggetto originario perde la sua autonomia reagendo meccanicamente ad ogni riferimento alla patria, essendo ormai divenuto un oggetto rispetto a tale idea personalizzata.

Torino, agosto 2014
Valerio Bertello



5. L’ALIENAZIONE III (2.0)

LA RADICE DELL’ALIENAZIONE: LA CONTRADDIZIONE TRA LAVORO SOCIALE E APPROPRIAZIONE INDIVIDUALE DEL PRODOTTO

Un risultato generale della storia universale, risultato che riassume in sé molti altri, può essere così sintetizzato. Nella produzione della loro vita materiale si instaurano nelle società umane molteplici rapporti di collaborazione. Il più fondamentale fra di essi è quello che si manifesta come divisione del lavoro. Ma tale rapporto di collaborazione, che nasce tra i produttori nel corso al processo di produzione, invece di estendersi alla sfera del consumo, cioè invece di dar luogo ad un sistema di consumo collettivo, quindi invece di tradursi in una sovrastruttura di rapporti politici collaborativi, genera paradossalmente un sistema di rapporti di potere asimmetrici, cioè un sistema di rapporti di dominio tra gruppi sociali contrapposti, rapporti altresì articolati al loro interno in sottosistemi di rapporti gerarchici pervasivi che tendono ad invadere ogni ambito del sociale, compresa la produzione. Ci troviamo di fronte ad un fenomeno in cui le conseguenze di premesse date non solo smentiscono le premesse in quanto non producono i risultati attesi ma si oppongono alle premesse sviluppando un processo che agisce in opposizione ad esse. E’ ciò che costituisce una contraddizione e quindi si tratta di un processo dialettico, pertanto di un fenomeno dinamico. Ma esso costituisce non solo una contraddizione ma anche una patente smentita del materialismo storico, secondo il quale i rapporti vigenti nella produzione determinano e quindi informano di sé i rapporti fra i produttori nella sfera del consumo. Ciò comporta che il rapporto della società con le cose, che si realizza come divisione del lavoro, quindi come rapporto materialmente e socialmente razionale, è un rapporto che fallisce come base per un rapporto politico adeguato, quindi fallisce globalmente come rapporto sociale. Ciò significa che in tal caso la società si trova nella condizione di alienazione. Quindi, secondo la definizione di alienazione, la causa è il rapporto inadeguato che la società ha instaurato con le cose, condizione che determina il corrispondente rapporto sociale sia necessariamente inadeguato.

Occorre dirimere questa contraddizione e il primo passo è necessariamente la comprensione della sua dinamica. Ma l’unica maniera per spiegarla è considerarla dialetticamente, cioè non come errore teorico ma come fonte di processi storici che determinano il proprio superamento. Cioè è necessario considerarla come concetto, quindi come contenuto in divenire. Mentre dal punto di vista della logica formale appare, in quanto contenuto contradditorio, irrisolvibile e momento di debolezza della concezione storica del materialismo. Il superamento della contraddizione tra produzione e consumo risulta possibile nella misura in cui diviene chiaro il processo materiale che produce tale contraddizione. Quindi la questione va affrontata storicamente. Si tratta di un processo complesso che coinvolge i fondamenti della storia umana, la cui comprensione richiede di procedere per passi successivi, dal particolare al generale.

Economia naturale ed economia sociale: nascita del plusprodotto

Consideriamo innanzitutto l’economia naturale cioè la base materiale dei gruppi umani primitivi. Originariamente l’economia del gruppo sociale, che era tale in quanto gruppo parentale, era caratterizzata da tre elementi. Da una parte era finalizzata all’autosufficienza, cioè si proponeva di produrre tutto quello di cui abbisognava in quanto in assenza di scambi dovuta al carattere conflittuale dei rapporti, non vi erano fonti alternative di beni in caso di carestia. Un secondo aspetto era il carattere dissipatorio, cioè orientato al consumo, della loro economia, determinato dall’assenza di efficaci tecniche per la conservazione degli alimenti, unica forma di ricchezza. Cioè il fine della produzione era il consumo, ciò che costituiva quindi un limite assoluto alla produzione, limite che escludeva l’accumulazione. Il terzo carattere era il fatto che si trattava di una economia naturale, quindi di una produzione in gran parte naturale, quindi variabile in modo imprevedibile entro limiti molto ampi tra un massimo indeterminato e un minimo prossimo allo zero. Quindi l’autosufficienza viene raggiunta solo saltuariamente. Il risultato è una economia della penuria. Ciò significa che la produttività del lavoro è in natura sempre insufficiente a fronte di bisogni tendenzialmente crescenti. Questa circostanza fa sì che in una economia quale era quella delle società primitive una pratica predatoria fosse più produttiva del lavoro, cioè che la guerra fosse più produttiva della produzione materiale.

Ma ad un certo punto compare nella storia una nuova categoria economica, il plusprodotto. Infatti la produttività naturale è limitata, mentre i bisogni umani non conoscono un limite oggettivo. Infatti già il processo stesso di produzione evolvendosi soddisfa i bisogni attuali ma genera bisogni nuovi. Inoltre la produttività naturale assume sempre piì un ruolo secondario in quanto storicamente viene sempre più integrata con l’attività umana fino ad essere ridotta a semplice produzione di materia prima, cioè alle leggi naturali immediate, mentre l’azione della società da una parte si estende nello spazio e nel tempo e dall’altra si concentra divenendo più produttiva nella misura in cui si socializza. Questo crea la possibilità di produrre più di quanto necessita per assicurare la sopravvivenza dei produttori, cioè delle eccedenze. Nasce dunque il plusprodotto e quindi si verifica il passaggio dall’economia della penuria all’economia dell’abbondanza. Ma insieme a questa compare una categoria di individui titolari di diritti su quel plusprodotto senza aver contribuito a crearlo. Quindi si verifica l’appropriazione da parte di una classe sociale del plusprodotto in quanto prodotto che risulta da ciò che supera i costi di produzione e che è la misura della produttività del lavoro, dove i costi sono il consumo dei produttori e quello dei mezzi di produzione che ha luogo nella produzione stessa, cioè il consumo dei fattori di produzione. Ciò significa che si sia verificato un aumento di produttività del lavoro non finalizzato al consumo, quindi nato esteriormente al processo economico. In effetti tale aumento di produttività risulta dall’introduzione nell’economia di un fattore extraeconomico: la coercizione, nelle sue due forme, quella violenta per lo più di origine esterna, che costringe con la forza il lavoratore a produrre più del necessario e a cedere tale plusprodotto ad altri; quella ideologica, di origine interna, che perviene allo stesso risultato con la mistificazione. Originariamente la separazione del plusprodotto dalla sfera del consumo poteva aver luogo solo nella forma della razzia, come integrazione di una produzione insufficiente. Ma questa pratica non poteva avere carattere stabile e costante, così come in generale non poteva avere stabilmente solo la forma corrispondente all’uso della coercizione violenta, ma doveva in parte assumere anche quella ideologica. Ma la coercizione presuppone l’esistenza di un rapporto di dominio di una parte della società sull’altra, rapporto finalizzato all’appropriazione del plusprodotto, che quindi è la causa della nascita di tale rapporto.

Ma se il plusprodotto è ciò che produce il dominio, da dove proviene il plusprodotto? Molte possono essere le cause. Oltre al dominio stesso e all’ideologia, possono essere lo sviluppo tecnologico, il commercio, le condizioni ambientali favorevoli e in generale tutto ciò che spinge l’individuo ad accrescere la produzione. Quindi l’apparizione di un plusprodotto stabile è il risultato di un processo storico non lineare nel quale intervengono molteplici fattori. Ma quelli fondamentali sono due: la coercizione e la tecnologia, che si mediano reciprocamente. Infatti, in primo luogo, perché possa svilupparsi il plusprodotto deve essere già stata superata l’economia spontanea dell’autosufficienza dissipatoria, cioè deve già esistere una produzione che vada oltre il consumo immediato. Ma questo è possibile solo se si esce dall’economia naturale, solo se si supera la limitata produttività naturale. Questo accade per la prima volta con la nascita dell’agricoltura, cioè con la rivoluzione agricola, che, col passaggio dalla produttività naturale a quella sociale, determina un significativo aumento della produttività del lavoro. Quindi diviene possibile produrre non solo per il consumo immediato ma anche per lo scambio, cioè inizia a diffondersi il commercio, che appare come vantaggiosa alternativa alla razzia, quando i gruppi sociali sono divenuti più potenti militarmente accrescendo le proprie difese e rendendo quindi le aggressioni troppo costose. Inizialmente si tratta di baratti fra eccedenze occasionali, scambi che, soddisfacendo a bisogni crescenti, divengono sempre più regolari, incentivando lo sviluppo di una produzione finalizzata allo scambio. Contestuale a questo sviluppo è l’instaurarsi di una primitiva divisione del lavoro, quella dei mestieri, e così può iniziare il processo storico della socializzazione del lavoro. Così il plusprodotto passa da una produzione saltuaria ad una regolare.

Conseguenza fondamentale della esistenza di tale plusprodotto è che ciò rende la conquista una impresa vantaggiosa in quanto si risolve nel possesso di una fonte permanente di ricchezza. Quindi il plusprodotto è all’origine del dominio. Inoltre tale appropriazione dell’economia di un popolo da parte di un altro è sicuramente un elemento che se non è ciò che crea dal nulla il plusprodotto certamente ne incrementa lo sviluppo trasformandolo nello stesso tempo in plusvalore. Infatti alla categoria dei proprietari del plusprodotto appartiene quella che ha creato il plusprodotto regolare, inizialmente semplicemente prolungando il tempo di lavoro e riducendo al minimo vitale i consumi dei produttori; poi inserendo qualche miglioria nel processo produttivo, infine introducendo tecnologie più produttive. Qui si dispiega compiutamente il plusprodotto come risultato della produttività del lavoro, processo che già si era manifestato con la comparsa iniziale del plusprodotto finalizzato allo scambio. Ma il principale fattore dell’aumento della produttività è la socializzazione del lavoro, fondamento della divisione del lavoro. Ma tale socializzazione nasce tardi nello sviluppo storico dell’economia e comunque nasce in un contesto di dominio di classe, dal quale deve emanciparsi per svilupparsi come fattore autonomamente sociale. Per cui appare determinante il ruolo storico progressivo svolto dalle classi dominanti nello sviluppo della divisione del lavoro e del macchinismo da essa derivato, forme fondamentali di sviluppo della produttività. Ma altrettanto importante è il movimento storico di emancipazione sociale svolto dalle classi subordinate destinato a liberare il lavoro sociale dall’involucro alienante in cui nasce, facendo in modo che il lavoro” sia la prima necessità per il lavoratore.”

In tutto questo processo essenziale è il ruolo svolto dall’ideologia che si oppone alla tendenza naturale al consumo immediato e all’autarchia. Per superare questi limiti dell’economia naturale è certo necessario inizialmente un certo livello di coercizione, che però non può essere la base di rapporti stabili. Ad esso infatti subentra l’ideologia, cioè la religione e il diritto, la cui funzione è quella di stabilire la ripartizione del prodotto fra le diverse classi sociali. Essa si affianca alla coercizione come fonte della coesione sociale e soprattutto trasforma la coscienza della pratica sociale nell’economia. I produttori possono considerare razionale abbandonare l’autarchia e produrre più del necessario al fine di praticare una economia di scambio. Oggetto di questa rete di scambi è non solo il plusprodotto ma anche il plusvalore. Cioè quella parte del plusprodotto che si costituisce sulla base di scambi ineguali, cioè che violano e nello stesso tempo si accordano con i principi della pratica economica sancita dal diritto o dalla religione. Quindi per scoprire le potenzialità del lavoro sociale è necessario considerare il lavoro produttivo non come una attività che prelude immediatamente al consumo individuale ma come una attività sociale dove si produce per gli altri come gli altri producono per te. Cioè la produzione è finalizzata allo scambio e quindi tende a specializzarsi, fino ad arrivare alla produzione di massa, potendo così realizzare economie di scala. Più in generale la produzione, oltre a prolungarsi nella specializzazione, deve prolungarsi anche oltre il livello che assicura il consumo dopo lo scambio. Ciò allo scopo di costituire riserve per le emergenze, ma soprattutto per creare un fondo utilizzabile per investire in nuovi settori produttivi.
Naturalmente queste due forme di plusprodotto possono sovrapporsi, così come i modi di realizzazione tramite il lavoro sociale. Cioè il plusprodotto come plusvalore sottratto ai produttori si intreccia con il surplus in quanto prodotto sociale, così come la modalità sociale di produzione si presenta contemporaneamente come coercizione e come libera partecipazione al processo sociale complessivo di produzione, consumo e accumulazione. Cioè dominazione e sviluppo delle forze produttive sono due processi originariamente inscindibili ma che il loro stesso sviluppo tende a separare e a porre uno contro l’altro sotto la spinta della contraddizione fondamentale, per la quale la socializzazione del lavoro urta con i rapporti di proprietà che regolano la distribuzione del prodotto.

Funzione ideologica dell’economia politica

Ma l’aspetto fondamentale della questione sta nella constatazione che tale contraddizione alimenta se stessa. Cioè se da una parte la contraddizione pone le basi del dominio, è anche vero che il dominio genera la contraddizione Infatti di fronte ad una contraddizione di tale portata, cioè divisione del lavoro nella produzione e dominio nel consumo, sorge immediatamente la necessità di eliminarla. Di qui nascono tutti i discorsi ideologici intorno all’economia, che raggiungono il loro completo sviluppo con il capitalismo. La soluzione storicamente adeguata è semplicemente quella di rendere i rapporti sovrastrutturali, cioè quelli relativi al consumo, conformi ai rapporti strutturali vigenti nella produzione. Ma questa misura non è immediatamente realizzabile in quanto la contraddizione non ha carattere accidentale ma è profondamente radicata nella storia materiale cioè nelle condizioni di vita degli individui e nel loro corso storico. Cioè accade che di fronte alla necessità cogente di conciliare tra loro due sistemi di rapporti tra di loro essenzialmente incompatibili, cioè collaborazione nell’ambito della produzione e dominio in quello del consumo, vengono deformati i rapporti economici, in primis quelli di produzione e a seguire tutti gli altri. Ciò avviene introducendo nell’economia naturale le categorie dell’economia politica, quali: lo scambio, la merce, il denaro, i prezzi, il valore, il plusvalore e le altre; categorie cui corrisponde una pratica dell’economia la cui funzione è essenzialmente quella di risolvere la contraddizione tra produzione sociale e consumo individuale.
Ma questo espediente fallisce il suo scopo. Essendo queste categorie contradditorie lungi dal risolvere la questione la complica ulteriormente. Infatti la legge del valore, che sta alla base dell’economia politica, è il tentativo di rendere confrontabili fra loro le merci e precisamente il loro valore. Ma esse dal punto di vista oggettivo, cioè della loro materialità sono grandezze essenzialmente incommensurabili in quanto qualitativamente diverse, essendo insiemi di elementi eterogenei. Questo significa introdurre il concetto di valore d’uso. Oppure si può introdurre il concetto di valore assoluto facendo riferimento ad un parametro convenzionale, alla sola condizione che sia comune a tutte le merci, sia materiali che immateriali. Ma qui la scelta è arbitraria mentre il rapporto tra le merci deve essere oggettivo e comunque non esiste quantità che non abbia un aspetto qualitativo, ciò che ripropone il problema. Infatti considerando il caso classico in cui il parametro è il tempo di lavoro, esso sembra l’unico ad avere la proprietà di essere un parametro universale, per cui si tratta di una scelta obbligata. Ma quello che appare una scelta obbiettiva perché necessaria, si rivela fallace poiché i tempi di lavoro non sono omogenei non essendo tali i diversi lavori. Marx risolve apparentemente il problema asserendo che i rapporti fra i diversi lavori sono un risultato storico, ma ciò significa considerare i moltiplicatori che permettono di ridurre un lavoro complesso a lavoro semplice, un dato empirico, da rilevare dalla realtà del mercato, non un risultato della teoria del valore.

Quindi il valore di una merce, in quanto proprietà che la rende scambiabile, non esiste come parametro oggettivo e se esiste non è esente da variazioni qualitative e comunque non è oggettivo poiché è frutto di una convenzione arbitraria. Ma allora la sua vera funzione non è quella di introdurre un criterio oggettivo nello scambio, ma di giustificare una modalità di rapporto sociale. Infatti la legge del valore è fondata sull’idea di proprietà privata in quanto presuppone che gli scambisti siano proprietari delle merci. Quindi il concetto di proprietà è fondato sull’idea di “scambio equo”, cioè quello scambio che mantiene costante quantitativamente il possesso degli scambisti. Ma se è convenzionale il valore degli oggetti scambiati convenzionale è pure il concetto di proprietà ed è più realistico abolirlo, altrimenti il rapporto che instauriamo con le cose fallisce e tale fallimento trascina con sé il rapporto fra gli individui. Tale fallimento è appena mascherato dalla creazione dell’economia politica che nasconde le possibilità di superamento storico.

Conclusione

A questo punto si può tentare una sintesi sulla base degli elementi finora esposti. La questione posta era quella che nell’economia sviluppata, quella capitalista, si manifesta una incompatibilità tra una produzione sempre più socializzata e una distribuzione, quindi un consumo, che ha luogo su base individuale, cioè secondo i principi della proprietà privata. Se i rapporti economici sono alla base dei rapporti sociali, ciò significa che la società attuale è minata da una grave contraddizione. Ma il materialismo considera i fatti economici come l’origine di ogni fenomeno sociale. Per cui non può non considerare il fenomeno in questione come originato da una contraddizione materiale. Questa trae la sua origine da quella che è la causa più profonda di tutti i fenomeni sociali, cioè l’esistenza di un plusprodotto e la competizione fra le classi sociali per impossessarsene. La contraddizione sta nel fatto che le produzione del plusprodotto comporta l’uso di tecnologie avanzate, la cui creazione ed applicazione implica un alto grado specializzazione e qualificazione della forza lavoro, fattore ottenibile solo con una radicale socializzazione del lavoro, sia nella formazione che nella produzione. Infatti il lavoro non nasce immediatamente come lavoro sociale mentre non si può parlare di lavoro se non in questi termini. Il lavoro si socializza nel corso di un lungo processo storico nel corso del quale si manifesta una tendenza all’aumento della sua produttività. Paradossalmente la coercizione costituisce il punto di partenza della socializzazione, la completa socializzazione quello di arrivo. Ma le ripercussioni di questa evoluzione sulla sfera del consumo, cioè della proprietà privata sono lente e graduali. Per cui non stupisce che in questa sezione del processo economico si siano accumulati forti ritardi, e quindi resista al cambiamento storico, anzi tenti persino di ripristinare forme di economia (come il liberismo) ormai da tempo obsolete.

Naturalmente questo è solo un abbozzo di analisi, ma poiché è un discorso fondato sul materialismo storico, la sua conclusione è ovvia: la contraddizione tra produzione e consumo, che giunge al culmine sotto il capitalismo, è un fenomeno sovrastrutturale, quindi un processo di corto respiro e destinato ad una rapida scomparsa. I segni premonitori di tale evento non mancano. Del resto per il materialismo storico il capitalismo è sempre apparso come una società di transizione verso il comunismo. Ovviamente solo la storia potrà comprovare se questa analisi del capitalismo e la teoria che la sostiene sono conformi ai fatti.

Torino, novembre, 2015
Valerio Bertello